Arriva da Varese la Top Chef del Texas

Donatella Trotti vive da 17 anni in America e ha inventato una formula rivoluzionaria per il suo ristorante: nel piccolo locale i clienti si portano i tavoli e i bicchieri. Lei prepara i piatti della nonna, così apprezzati che le hanno fatto vincere un premio

Donatella Trotti al Nonna TataPer i varesini è nota come la figlia di Titta Trotti, rotariano e fondatore, insieme a Tommaso Diana, dell’associazione “Varese con te”. O come la sorella di Paola Trotti che gestisce, con il figlio Andrea Lorenzini, il celebre albergo di charme varesino “Art Hotel”.
In America però, Donatella Trotti (nella foto, scattata dai suoi fan in internet, mentre rigoverna) è semplicemente la proprietaria di “uno dei 20 migliori piccoli ristoranti d’America” nonchè la vincitrice del Reality “Top Chef” organizzato in Texas.
Eppure, lei è varesinissima, anzi di Casbeno: e come varesina – e figlia di varesini – è diventata famosa per il suo ristorante americano che nasce dalla voglia di condividere le ricette della mamma e della nonna. Proprio la famiglia rimasta a Varese ha ispirato il piatto più famoso (gli “involtini Mirella” dal nome della mamma) e dato il nome al locale (“Nonna Tata” dal nome della nonna) di Fort Worth, Texas dove vive da 17 anni e dove ha cambiato il concetto stesso di ristorazione. E’ una storia tutta da raccontare, quella di Donatella Trotti: noi l’abbiamo fatto in una lunga e simpatica chiacchierata con lei. Che, per la prima volta, vi proponiamo “a capitoli” e in video.

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Nonna Tata, il successo su internet 4 di 17

IN TEXAS, SEGUENDO LE ONDE DEL DESTINO
«In America abito ormai da 17 anni. Mi sono trasferita per provare a stare negli Usa, dopo avere lavorato per un certo periodo a Milano, dove ero andata perchè volevo andare oltre Varese: ma presto mi sono resa conto che anche Milano mi stava un po’ stretta. Così sono andata negli Stati Uniti e ho cominciato a lavorare per i negozi Versace: mi mandavano in giro per gli Usa ad aprire i negozi e a risolvere i problemi dei vari punti vendita. All’inizio era divertente, ma il difetto era che non stavo mai a casa: morale, dopo tre anni di viaggi mi sono stufata. Mi sono fermata a Fortworth, che è una città non molto grande, circa 700mila abitanti, ma con un ottimo tasso di crescita perchè ha una dimensione tale per cui la gente vive bene. Vivo con il mio compagno, che è mio marito da 7 anni. Con lui abbiamo cominciato ad organizzare molte cene tra amici: mi piaceva avere persone in casa. Mica tre o quattro persone, ma 20 o 30 tutti i weekend. Ad un certo punto ha cominciato ad diventare quasi un lavoro, certamente una attività pesante. Mio marito, poi, era stufo di lavare i piatti, visto che l’organizzazione era così: io cucinavo e lui rigovernava. Alla ci siamo detti “ma perchè non ne facciamo un’attività?” e così abbiamo deciso di provare ad aprire un ristorante.

Nonna tata, il localeALLA RICERCA DEL RISTORANTE PERFETTO
«Innanzitutto, io non volevo prendere in affitto i locali. E nemmeno mio marito, che è avvocato e si occupava anche di problematiche simili dal punto di vista legale: con l’esperienza infatti si era accorto che quando un ristorante andava bene, i proprietari del locale finivano per aumentare l’affitto, creando motivi di discordia. Abbiamo così deciso di comprare il posto dove saremmo andati, e ci siamo mossi in questo senso. Un giorno vedo questo locale aperto da trent’anni, un po’ tradizionale ma bellissimo. Piccolo abbastanza da non spaventarmi – l’idea di partire con un ristorante di dimensioni normali mi preoccupava assai, visto che non avevo mai fatto questo mestiere – e di proprietà di una coppia. Purtroppo, però, non era in vendita. Avevamo ormai già rinunciato, quando un amico ci telefona e dice “a te non interessava quel locale? Guarda che ora ha un cartello con scritto “in vendita da proprietario””. Siamo corsi là, e il giorno dopo firmavamo la compravendita.
Da quel momento, ci abbiamo impiegato nove mesi a metterlo in ordine come volevamo noi. Innanzitutto l’abbiamo completamente svuotato, perchè non c’era niente a norma: tanto per dire, il bagno aveva la moquette… Poi abbiamo dovuto allargare la cucina per mettere qualche macchinario in più, che a me serviva: con il risultato però di rendere ancora più piccola di prima la parte di tavoli davanti alla cucina. Alla fine, il posto più grande del locale è risultato essere il bagno, perchè l’avevamo adattato per handicappati: tant’è vero che un anno, nel giorno del primo d’aprile, ci abbiamo apparecchiato due tavoli dentro. Comunque, una volta completate le ristrutturazioni, mi sono messa a lavorare: all’inizio abbiamo aperto io e una mia amica, lei a servire ai tavoli e io ai fornelli. Eravamo troppo poche, l’abbiamo capito poi. Mia sorella, che è arrivata un mese dopo a trovarmi, ha passato un weekend allucinante: da quando è scesa all’aeroporto a quando è ripartita non ha fatto altro che lavare piatti. Il risultato è che lei non è più tornata! Prima però mi ha imposto l’acquisto di una lavastoviglie e l’assunzione di una lavapiatti. Adesso di lavapiatti ne abbiamo tre».

“I NOSTRI CLIENTI SI PORTANO DA CASA TAVOLI, VINO E BICCHIERI”
«Come dicevo, il locale è davvero piccolo. In tutto abbiamo sei tavoli all’interno, tre dei quali sono da due persone, poi ne abbiamo all’esterno un numero variabile dai sei agli otto. La voce si è sparsa presto, la gente si trova bene e quindi hanno cominciato a crearsi delle gran code per mangiare. Con il risultato che i clienti hanno cominciato ad organizzarsi, e adesso si portano i tavoli da casa. Lo fanno soprattutto nei weekend: mettono il loro tavolo all’esterno – da noi si mangia fuori quasi tutto l’anno – e di solito si portano anche il necessario per addobbarlo. Se vedi un tavolo con tovaglie e candelieri, per esempio, stai pur sicura che l’hanno portato da casa: noi non abbiamo nemmeno le tovaglie…
Questa abitudine, che a noi in realtà non dispiaceva affatto, ha dato però qualche problema di numerazione, visto che non sappiamo quanti sono e dove sono i tavoli portati da casa ogni sera. Così abbiamo inventato i mezzi numeri: “sette e mezzo” per esempio significa che è il tavolo di fianco al numero sette, ma che se lo sono portati loro. Funziona tanto bene, e con tanta fantasia da parte dei clienti, che a febbraio abbiamo deciso che faremo una gara per il miglior tavolo portato da casa, quello meglio addobbato. Comunque per venire a mangiare da noi non si portano solo tavoli: una volta abbiamo anche servito gente in un camper, e ora utilizziamo anche i tavoli di un bar di fianco. Quest’ultima è una joint venture particolarmente comoda, perchè noi non serviamo alcol nel locale: il ristorante è troppo piccolo per tenere una selezione di vini accettabili, così all’alcol ci pensano le persone, portandoselo da casa. Una volta davamo loro i bicchieri per berselo, ma poi ci ci siamo resi conto che alla fine delle serate del weekend ci ritrovavamo una montagna di bicchieri da lavare, ed era una cosa ingestibile: io pagavo due lavapiatti solo per lavare i bicchieri. Così ho detto basta. Ora si fa così: se si portano i loro bicchieri noi non facciamo pagare loro il coperto, se invece loro non hanno i bicchieri io glieli vendo, e poi loro se li portano via».

LE PRENOTAZIONI? SOLO AL BAR DI FIANCO
«Noi non prendiamo prenotazioni: se vogliono mangiare nel nostro locale devono venire di persona e darci un nome e un telefono. Quando poi il tavolo è disponibile, noi li richiamiamo. Magari passa un’ora o due: loro intanto però possono andare a fare shopping o altre commissioni. Da quando vicino a noi ha aperto “The Usual”, un cocktail lounge che ha aperto da poco e che vende solo da bere, è cominciato però un curioso fenomeno di “migrazione” dei clienti: andavano a sedere ai loro tavoli, così avevano a disposizione l’alcool che noi non serviamo, e poi ordinavano da mangiare da noi, visto che in quel bar non si serve da mangiare. E così ora ho una cameriera apposta che va avanti e indietro dal nostro locale per servire quelli che stanno al “The Usual”, specialmente il martedì e il venerdì. Un vantaggio per tutti: per noi che non abbiamo il problema dell’alcool, per loro che si ritrovano ai tavoli degli ottimi clienti, che bevono di più e si trattengono maggiormente proprio perchè stanno mangiando. E anche per i clienti: perchè in quel cocktail bar, contrariamente a noi, raccolgono le prenotazioni…»

UN MENU’ AL TELEFONO CON LA MAMMA
«La ricetta più richiesta? E’ senza dubbio quella degli “Involtini Mirella”, dal nome di mia mamma. li mangiavo da piccola e mi piacevano tanto… In realtà tutto il menù è stato concepito così: pensando, insieme a mia sorella, alle cose che ci faceva mamma da piccole e che ci piacevano. Così abbiamo messo nel menù per esempio il pollo alla milanese, quelle fette sottili e panate che ci metteva nei panini quando andavamo in viaggio. E poi gli involtini, che erano fatti di pasta fresca con besciamella e prosciutto, e che ci ricordavano le feste. Ora, a Fortworth, questa ricetta la chiamano “lo special della mamma”: perchè non tutti ricordano il nome, ma tutti ne conoscono la storia. Anche se non sanno che quando mangiavo quei piatti, da bambina, mai avrei detto che avrei gestito un ristorante, nè cucinato per professione. Negli Stati Uniti mento spudoratamente, dicendo che ho sempre cucinato in vita mia, ma mamma nega! tutti pensano che sia cresciuta in cucina…» « “e invece non toglieva neanche il piatto dalla tavola..» aggiunge mamma Mirella, che sta assistendo alla conversazione. «In effetti, ho iniziato a cucinare quando ero già negli USA – continua Donatella – tant’è vero che le prime ricette le ho scambiate al telefono con lei. Anzi, quando ho iniziato a cucinare mi attaccavo al telefono ogni momento: “e adesso, mamma, come faccio?” le chiedevo quando ero in difficoltà o non ricordavo qualcosa. Ho pagato di quelle bollette telefoniche, a quell’epoca…»

NONNA TATA
Il nome del ristorante italiano di Donatella, ormai un caso Texano e nazionale, è “Nonna Tata”, dal nome della loro nonna. «Un piccolo errore di marketing, per la verità, visto che adesso tutti mi chiamano nonna. Avrei dovuto pensarci meglio, prima di rimanere ferita nell’orgoglio… Tra l’altro anche Tata è un nome imbarazzante: “tatas” sono infatti chiamate anche le tette, da noi. Adesso l’abbiamo presa con spirito, tant’è vero che stiamo pensando di fare delle magliette con scritto davanti “eat more tatas”, un piccolo doppio senso malizioso…. Però tra questo e il fatto che mi chiamano nonna, a posteriori mi dico che avrei dovuto pensarci meglio. Il nome comunque non ferma affatto la nostra attività: Ora ho cominciato a mettere in piedi “Go Tata”, un catering, e “Tata Litro”, un negozio di vini. Quello che mi sostiene è la buona clientela: da me vengono i clienti che amano mangiare e bere bene, sono intenditori. Una fortuna, perchè sono state le loro segnalazioni a portarci, fin dal secondo anno della nostra apertura, sulla guida Zagat, e su Travel and Leisure come uno dei 20 migliori piccoli ristoranti d’America. In nessuno dei due casi noi avevamo fatto nulla: queste menzioni sono nate tutte da segnalazioni di gente che era venuta a mangiare da noi».

COME SONO DIVENTATA LA PRIMA “TOP CHEF” DEL TEXAS
Donatella mostra tanti giornali che parlano di lei, anche in copertina. Il motivo di tutta questa esposizione è che lei ha sbaragliato tutti i concorrenti del FortWorth TOP CHEF, gara tra dieci top chef del Texas organizzata dal principale giornale di FortWorth.
«Ero stata selezionata per una prima puntata eliminatoria tra luglio e agosto: in tutto avremmo dovuto gareggiare in 10. Dopodichè ne sarebbero stati selezionati in tutto 4, che avrebbero gareggiato la finale. La gara era mista: si trattava innanzitutto di riconoscere “alla cieca” alcuni ingredienti, poi di rispondere ad alcune domande di cucina. Ma il clou era la prova: avevamo 25 minuti per cucinare una proteina (pesce, maiale, agnello o cose simili) per quattro giudici – che di solito erano giornalisti o celebrità locali – che dovevano decidere il voto.
Nella prima competizione c’erano una serie di ingredienti a disposizione, come uova e farina, ma niente burro o parmigiano: tant’è che mi sono lamentata perchè alcune cose erano fondamentali per cucinare all’italiana. Poi quando mi sono ritrovata in finale li ho chiesti e me li hanno concessi, . come del resto mi hanno concesso il mattarello: in entrambe le competizioni ho infatti preparato la pasta, ma la prima volta l’ho tirata con una bottiglia di vino, perchè da casa si poteva portare solo i propri coltelli. In finale però, me l’hanno concesso… E alla fine ho vinto. Senza stress, mai, perchè mai pensavo che avrei potuto vincere contro tanti chef “veri” e blasonati contro cui mi confrontavo. Io ero andata lì solo per giocare: la sorpresa è che alla fine ho vinto io».

Stefania Radman
stefania.radman@varesenews.it

Il web è meraviglioso finchè menti appassionate lo aggiornano di contenuti interessanti, piacevoli, utili. Io, con i miei colleghi di VareseNews, ci provo ogni giorno. Ci sosterrai? 

Pubblicato il 27 Gennaio 2011
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