Lo speziere francese che rapì Porto Valtravaglia

I personaggi del romanzo di Marco Marcuzzi (Pietro Macchione Editore) sono vere e proprie scatole cinesi da cui scaturiscono infinite storie tenute tutte insieme dall'affascinante e diabolico Jeanpaul de Sade

«Mi sono messo a scrivere perché con la musica non riuscivo più ad esprimermi». Il mondo di Marco Marcuzzi è sempre stato il pentagramma, ma dopo trent’anni di pianoforte e composizione l’ispirazione non arriva più e così decide di affidare la sua crisi alla scrittura. “Lo speziere di Porto Valtravaglia” (Pietro Macchione Editore) nasce dunque come una reazione, una risposta alle difficoltà della vita.

Definire questo libro un giallo è però riduttivo. Certo, i tanti morti ammazzati ingegnosamente possono far cadere nella tentazione della facile classificazione di genere, ma questo è un romanzo che, come tutti i romanzi, parla dei sentimenti degli uomini ovunque essi vivano, da New York a Porto Valtravaglia, appunto.

Passione, eros, meschinità, generosità e cupidigia  costituiscono il bagaglio antropologico con il quale lo scrittore accompagna il lettore in questo movimentato viaggio. La penna di Marcuzzi sposta dunque la cenere sotto cui pulsa la vita di un paese, fatta di tante storie, alcune edificanti, altre decisamente poco virtuose. Non mancano gli spunti locali: luoghi, tradizioni e modi di dire che strizzano l’occhio al lettore varesino che in questo modo si può meglio identificare con la storia, in un mondo dominato dalla bellezza immanente del Lago Maggiore e dei borghi arrampicati sui colli prealpini. Sullo sfondo ci sono le vicende della famiglia Vallardi, dinastia di industriali della ceramica che mostra i primi segni di una decadenza imminente, nonostante si sia ancora ben lontani dalla globalizzazione e si ragioni ancora a colpi di cinquemilalire.

A catturare la lettura sono però i personaggi tratteggiati da Marcuzzi, vere e proprie scatole cinesi da cui scaturiscono infinite storie tenute tutte insieme dall’affascinante e diabolico speziere Jeanpaul de Sade, protagonista del romanzo, il cui destino è perennemente in debito con una vita ossessionata dall’avidità. «Ce qui est dit, est dit» (Ciò che è detto è detto) è la regola inutile che Jeanpaul ripete a se stesso, applicandola con fatalismo in ogni momento cruciale, quasi fosse una pezza capace di riparare la mancanza di umanità che caratterizza la sua vita fin dall’infanzia, povera e sfortunata, vissuta a Marsiglia. Saranno la freschezza del sentimento della bella Giuditta e il riscatto morale del padre Ferdinando, ciclista antifascistaa far chiudere in pareggio il bilancio esistenziale del romanzo.

Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it

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Pubblicato il 08 Aprile 2014
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