I richiedenti asilo: troppi 15 mesi per sapere del nostro futuro

Un paio di chiamate al 112 da parte di alcuni giovani per lamentare alle istituzioni la lentezza della burocrazia italiana. Gli educatori: “Hanno ragione, anche se protestare così non serve”

Villa Letizia, dove i richiedenti asilo aspettano

Imparano a fare l’orto, a diventare contadini e ad aggiustare oggetti. Ma anche a parlare italiano e ad apprendere i fondamentali la nostra cultura, quella occidentale: tutte attività che serviranno per rimanere in Italia o spostarsi altrove.

Ma per sapere che ne sarà di loro devono attendere tempi biblici, quindi martedì scorso e nella mattina di ieri, mercoledì alcuni dei giovani africani accolti a Villa Letizia in attesa di riconoscimento dello status di rifugiato hanno chiamato il 112: “Vogliamo parlare con le istituzioni”.

E i carabinieri sono arrivati, assieme agli agenti della polizia locale del Verbano. All’arrivo degli agenti la sorpresa: zero tensioni, nessun problema: i ragazzi stavano studiando e hanno spiegato alle divise la questione: “Perché in Lombardia per andare di fronte alla Commissione Territoriale ci vogliono più di 15 mesi e in altre regioni italiane, come la Calabria, in meno di tre mesi questo avviene?”.

Difficile, per le forze dell’ordine, dare una risposta. Gli agenti hanno parlato con gli ospit, li hanno ascoltati e hanno spiegato loro di avere pazienza.

«Proprio così, come facciamo noi tutti i giorni – spiega Simone Maritan, di Agrisol, la cooperativa emendazione della Caritas Lariana che gestisce la struttura di Caravate – . Questi giovani, che sono una ventina sui 58 che in totale ospitiamo, lamentano delle lungaggini eccessive per la valutazione del loro status. Il paradosso è che qui vengono sottoposti ad un programma di formazione culturale e lavorativa reale, che non viene però valutato in nessun modo dalla Commissione».

Commissione che difatti ha il compito di verificare – e lo deve fare secondo la Convenzione di Ginevra entro tre mesi – se la persona può godere o meno dello status di rifugiato.

Il punto sta quindi nell’estrema dilatazione dei tempi, anche per evadere altre pratiche legate a documenti e altri passaggi burocratici tappe obbligate del nostro sistema di accoglienza.
«Alla loro denuncia si associa anche la nostra – conclude Maritan – questi ragazzi hanno ragione, anche se è chiaro che chiamare i carabinieri non ha nessun significato. Vogliono solo che un’istituzione li ascolti, e chiamando il 112 qualcuno arriva sempre…».

Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it

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Pubblicato il 09 Febbraio 2017
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