Regolare il made in Italy? Un’impresa, ma si deve fare
L'opinione del professor Cesare Galli, docente di diritto industriale, al convegno indetto da Univa e Smi
Ogni testo di legge in materia di etichettature e made in Italy deve essere difendibile a livello europeo, e qui sta il difficile. Il professore Cesare Galli, docente di diritto industriale dell’Università di Padova, interviene al convegno indetto da Univa e Sistema Moda Italia “smontando”pezzo a pezzo tutti i punti deboli delle soluzioni legislative fin qui proposte. Se la necessità è urgente e condivisa, sul come intervenire a tutela delle produzioni nazionali ci sono infatti una serie di interrogativi.
Una regola che valga per tutti – Il ddl sviluppo ed energia (l. 99/09), votato dal parlamento lo scorso 23 luglio, ha dovuto essere rivisto relativamente all’art. 17 comma quarto, che puniva l’introduzione in Italia di merci recanti marchi di aziende italiane ma fabbricati all’estero e privi di precisa indicazione di tale origine. La norma però, a rischio di fare figli e figliastri a nostro stesso danno, non colpiva invece aziende di altri Paesi, ed era probabilnmente in conflitto anche con il diritto comunitario. «Guai se si ripetesse una vicenda come quella della legge sviluppo» dirà il presidente Graglia per Univa. L’art. 16 del nuovo decreto legge 135/09 abroga il comma contestato e precisa invece che si intende come made in Italy il prodotto o la merce il cui disegno, progettazione, lavorazione e confezionamento siano esclusivamente compiuti su suolo italiano, ferma restando l’intenzione di punire chi violi queste norme.
Servono regole uniformi – Le questioni sono molto complesse. Il codice doganale europeo prevede che la merce si consideri originaria del Paese in cui ha subito “l’ultima trasformazione sostanziale”. Gli ostacoli a soluzioni legislative “fai da te” dei singoli Paesi membri UE stanno proprio in Europa: nulla che possa alterare le condizioni del libero commercio intracomunitario è ammissibile. Ci provò la Gran Bretagna negli anni Ottanta a tutelare il suo made in, le fu imposto l’altolà. «Se si deve “rompere”, andare oltre, va fatto bene» avverte Galli, «la normativa deve essere esportabile ad altri campi». Che interessino altri paesi, avvertirà anche il viceministro Urso: il do ut des è la regola, partire da soli vorrebbe dire «farsi del male».
Regole precise pensando a Bruxelles – Va evitato ogni rischio di discriminazione che colpirebbe anche i nostri porti, mentre, denuncia Galli, «altri lasciano entrare merci contraffatte con entrambi gli occhi chiusi». Le intenzioni del governo erano le migliori anche nello stendere l’ultimo decreto legge, ma ci sono «storture pesanti che minacciano di danneggiarci». Troppi discorsi aperti a interpretazioni, in particolare. Ce n’è anche per la proposta di legge caldeggiata da Reguzzoni: «Precisare in quel modo quanta parte della lavorazione deve avvenire nel Paese, non è facile». Morale: bisogna agire rapidamente, ma studiando ogni dettaglio al meglio, «perché a Bruxelles non si accusino di pressappochismo, ancora una volta, gli italiani».
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