Niente traduttore in tribunale, tocca al missionario-interprete
Tra le difficoltà nel percorso di riconoscimento c'è anche quello della lingua: perché non si parla solo (di) francese e inglese, ma anche lingue e dialetti africani
La giustizia fa i conti con la carenza di risorse, il tribunale non ha soldi per i traduttori e così ci si deve ingegnare con un po’ di inventiva e di relazioni personali: capita così che per assistere un profugo venuto dal Mali debba arrivare come traduttore un missionario italiano che ha vissuto a lungo nel Paese dell’Africa subsahariana.
L’episodio riguarda due dei rifugiati africani di Gallarate: fanno fatica a parlare in lingua straniera, il basso grado di scolarità ha fatto sì che anche in un anno abbiano imparato poco la lingua italiana. Per il resto: il loro dialetto locale, un po’ di francese per uno dei due. Così quando arriva il loro turno di presentarsi davanti al Tribunale di Milano per il riconoscimento dello status di rifugiati, si scopre che è quasi impossibile avviare il confronto, per mancanza di traduttori (la commissione deve valutare la veridicità del racconto dei profughi, capire cosa rischiano davvero se rientrano nei Paesi d’origine). Come si risolve? Lo spiega l’assessore ai servizi sociali del Comune di Gallarate, Margherita Silvestrini: «Una insegnante del centro Eda ci ha fornito il nome di Padre Vittorio, che è stato missionario a lungo in Mali e conosce bene la lingua locale. Così siamo riusciti – dopo un’udienza saltata – a riprendere il percorso».
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