Keith Jarrett: dentro e fuori gli “standard” del jazz
La Ecm pubblica il cofanetto con le New York Sessions del 1983
Nell’Arte è sempre importante distinguere tra l’uomo e il creativo. Se così non fosse, sarebbero in pochi ad acquistare i cd di Keith Jarrett o a riempire, ancora oggi, i teatri e le piazze in occasione di un suo concerto. Jarrett non è solo scontroso; è addirittura maleducato: a volte a torto, a volte a ragione. Forse per insofferenza, stanchezza, arroganza. Fatto è, che il sottile filo psicologico che lega (o vincola) il genio all’ascoltatore non sempre può essere reciso e, spesso, lo si gestisce a fatica. Il genio deve essere sopportato: e Jarrett, genio lo è in tutte le sue espressioni artistiche. Crede in se stesso, dà l’eccellenza in ciò che fa, ma chiede altrettanto. A Jarrett non basta il rispetto del pubblico; vuole devozione totale. Perché sa – questo è innegabile – di essere un artista che non ha eguali sulla faccia della Terra. E che, forse, non ne avrà per ancora molto tempo.
Dunque, dimentichiamoci del Jarrett uomo e parliamo dell’artista. La Ecm di Manfred Eicher pubblica “Setting Standards – New York Sessions”: un cofanetto di tre cd, registrati nel gennaio del 1983 al Power Station di NY, sui quali si contano più di 140 minuti di storia del jazz. Solo evergreen – da “All The Things You Are” a “God Bless The Child”, I Fall In Love Too Easily”, “Never Let Me Go”, “If I Should Lose You” – più “Changes” (Flying Part 1, Flying Part 2 e Prism) di Jarrett. Rileggere la tradizione, quello che si definisce “American Songbook”, oggi é divenuta quasi una tendenza. Si sa però che non è la moda a fare l’artista, ma il contrario. Riscrivere la tradizione significa, per Jarrett e gli inseparabili Gary Peacock al contrabbasso e Jack DeJohnette alla batteria, ri-comporre e rielaborare nel solco del passato ma in assoluta libertà.
Una sorta di “metamorfosi”, la definisce il pianista, che porta ad avere un’attenzione del tutto particolare alla sostanza melodica. Perché, secondo le parole di Jarrett, «la nostra società rischia di perdere la melodia. Questa dice, vado dove voglio; l’armonia dice, guarda che ci sono anch’io. Ma è la melodia a vincere». E sono queste poche note – efficaci, pulite, lineari, semplici – ad interessare l’intero processo costruttivo del trio. Su una melodia, «che non è miniatura ma grande invenzione», la formazione edifica un mondo fatto di canto, ritmi sinuosi, note che si appoggiano agli accordi con leggerezza sino a trasformare la musica in crema (la rilettura di “God Bless the Child” è di una tenerezza commovente). E’ questo equilibrio interiore a risolvere il dilemma, sempre vivo, tra chi legge e chi interpreta o traduce. Perché per Jarrett, e per tutti quegli artisti che come lui studiano le note da un punto di vista scientifico, il suono non si separa mai dall’anima. In fondo, si tratta di capire dove si colloca l’infinito: se dentro o al di fuori di noi.
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