Il pendolare pachistano
Zain Dar vive a Varese e gestisce un bar a Milano. Nonostante la paralisi. La nuova storia di Federico Bianchessi in salsa varesino/milanese
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A qualche giorno dalla partenza per un tour archeologico nel Pakistan, incontro in un bar di fianco all’Università Statale di Milano un giovane pachistano di Varese. Si chiama Zain Dar. Ha 28 anni e viene da una città situata proprio sull’itinerario del mio tour: Gujrat, nella regione del Punjab.
Ne parliamo mentre scalda il caffè e serve panini, con varie interruzioni per passare dal bancone alla cassa. Saluta qualche cliente, per lo più giovani, dà qualche indicazione nel retro. Il bar dove ci troviamo, lo Zen Zero Caffè, infatti è il suo. Festeggiamo insieme lo stesso giorno, 8 febbraio, lui il secondo compleanno del locale, io qualche anno in più. Zain ha i tratti somatici dolci e la carnagione chiara con occhi scurissimi di un’etnia indo-ariana distribuita abbastanza equamente in un territorio grande come l’Italia e diviso tra Pakistan e, in parte minore, India. Di là, sikh e indù, di qua musulmani.
Ma la loro storia, fino alla spaccatura del 1947 nei due grandi stati, ha seguito per secoli tracce comuni. Benché ne sia partito quando aveva solo 13 anni e non ci sia più tornato, l’interesse per le vicende di una delle culle più antiche della civiltà si nutre di letture e dei ricordi della madre – al lavoro dietro, nel cucinotto del bar – e alimenta il sogno di tornarci. Parliamo delle antichissime città di Harappa e Mohenjo Daro, dove duemila anni prima di Roma già c’erano acquedotti e case con bagni privati e acqua corrente, e un tracciato urbanistico moderno, tappe obbligate del viaggio, ci soffermiamo sulla misteriosa fine, così improvvisa e devastante, incenerita e vetrificata come Pompei, ma senza nessun vulcano attorno, pane per ufologi e fanta-archeologi che hanno ricamato di armi atomiche, 1500 anni avanti Cristo. Quando Alessandro Magno arrivò lì, ormai tutto era sepolto e dimenticato, e lo sarebbe rimasto fino quasi a metà del secolo scorso.
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A proposito di Alessandro, nella città di Zain si conserva, si dice, la leggendaria tomba del cavallo del conquistatore macedone. Non è proprio Gujrat, ma la vicina Jalalpur, e la leggenda ha una sua credibilità, visto che Alessandro fondò quella città proprio in ricordo del suo cavallo più amato e famoso, Bucefalo, morto durante la spedizione nel 326 a.C., battezzandola Alessandria Bucefala. Non è quella del condottiero occidentale giunto più a oriente di tutti, tuttavia anche la “piccola” storia di Zain Dar merita qualche attenzione. Com’è arrivato a Varese? E come al locale di via Festa del Perdono 1, a un passo dalla magnifica facciata in cotto della Cà Granda, l’antico Ospedale Maggiore di Francesco Sforza, e a una decina di metri dall’ingresso principale della Statale (che è al civico 7)? Una conquista non comune, impegnativa e una sfida quotidiana difficile, perché la location è super, con una clientela di studenti e professori, però anche con l’agguerrita concorrenza di molti altri locali che presidiano la zona. Ma è soprattutto una conquista ottenuta a un dolorosissimo prezzo personale. La perdita dell’uso delle gambe. Perché Zain Dar riempie bicchieri e porge tazzine, scalda toast e batte i conti, muovendosi su una sedia a rotelle. E lo può fare grazie al disegno particolare della zona lavoro del bar, messo a punto dallo studio di architettura della varesina Elena Brusa Pasquè per consentirgli di muoversi e raggiungere tutto senza difficoltà.
Ma ricominciamo dal principio, da quindici anni fa, quando il ragazzino arriva con la madre, un fratello e la sorella per raggiungere il padre, arrivato qualche tempo prima in Italia e che lavora come pizzaiolo a Varese. In realtà, l’uomo, che a Gujrat era magazziniere in una azienda di famiglia, non molto più tardi abbandona moglie e figli per ritornare in Pakistan. Il ragazzo frequenta le medie, impara velocemente e bene l’italiano, si integra facilmente, studia e lavora. E’ diventato un po’ il capofamiglia. Segue anche dei corsi di filosofia, proprio lì alla Statale. Ma il destino taglia improvvisamente, un’altra volta, i fili della trama. Un incidente con il motorino. Una brutta caduta, dalle conseguenze gravissime.
E’ paralizzato dalla vita in giù. Sembra la fine, il crollo di tutte le speranze. Come insegna Alessandro Magno, la forza dei conquistatori è nella volontà che abbatte gli ostacoli, vincere le ombre della paura, oltre alla capacità di trovare un pizzico di fortuna persino quando incombe la catastrofe. C’è l’occasione di prendere in gestione quel bar degli universitari che anche lui aveva frequentato. E c’è il gruzzolo dell’assicurazione. Ed ecco che l’indennizzo per l’incidente diventa una scommessa su un futuro che Zain Dar sta creando con il suo lavoro – duro: pendolare quotidiano da Varese, dove continua a abitare, a Milano, aprire alle 8 di mattina e chiudere la sera alle 20.30, cinque giorni su sette – due anni dopo l’inaugurazione. Il locale è arredato con estro e gusto, firmato dall’urban artist marchigiano-milanese Giorgio Bartocci. Ma è l’accessibilità funzionale a misura della sua situazione di ridotta mobilità a renderlo forse un bar unico a Milano. Del resto, quanti barman ci sono in sedia a rotelle? Una saletta interna, tranquilla, è usata anche per leggere e studiare. Tavolini all’esterno, in un angolo tra i più gradevoli e frequentati del centro storico. Specialità? Hamburger, insalate. Nulla di pachistano? “E’ una cucina troppo speziata, non avrebbe molto mercato qui”. Chissà, però: magari un piatto di biryani, il profumato riso con verdure, pollo o uova, della tradizione pachistana, potrebbe conquistare anche giovani palati con qualcosa di alternativo.
Zain Dar preferisce però raccontare ancora del Pakistan, contento di sapere che qualcuno ci viaggia a scoprirlo, una patria così lontana da ricordarla appena, ma sempre nei pensieri, a volte nei sogni, come la storia del lago della luna piena, il Saiful Muluk. Uno specchio azzurrissimo di origine glaciale a 3.224 metri di quota, che prende il nome da un principe persiano che si innamorò di una principessa delle fate, secondo una fiaba narrata dal poeta del Punjab Mian Muhammad Bakhsh. Nelle notti di luna piena si dice che le fate fanno il bagno. Non meno leggendarie le trote che si pescano, fino a sette chili.
Il Pakistan non è però, purtroppo, soltanto fiabe e fate, anzi. La popolarità di Malala Yousafzai, premiata nel 2014 con il Nobel della Pace, ha solo alzato il velo sulle discriminazioni verso le ragazze che vogliono studiare. L’ultimo caso, quello di Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte per blasfemia e recentemente liberata per le pressioni internazionali, ancora non è del tutto chiarito (e i casi simili sono circa duecento). E poi i talebani, di casa quanto nel vicino Afghanistan. “In Pakistan vive una moltitudine di etnie diverse, popolazioni con lingue, culture, tradizioni e mentalità particolari e difficili da capire per noi, radicate soprattutto nei piccoli centri e nelle campagne, e sempre molto chiuse al mondo moderno. Il terrorismo islamico però è un’altra cosa, in Pakistan, si sa, è stato sempre portato e diretto dai conflitti e dagli interessi di potenze straniere. Ma la politica mi interessa poco, non seguo la cronaca pachistana. Anche la religione: sono musulmano, come tutta la mia famiglia, ma non frequento moschee. Amo leggere, questo sì, molto, e di tutto, storia, letteratura…”. E indica i tanti libri sugli scaffali alle pareti del bar. Lasciati dai clienti? “No, sono tutti miei, li leggo io. Lo scambio di volumi nei bar, in realtà, non funziona. Se a uno piace un libro non lo lascia al bar, se lo tiene, oppure se lo lascia è perché è ridotto da buttare…e chi lo prende allora?”.
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