Lo sfruttamento del Maggiore e del Ticino rispetta la biodiversità?

L'Università dell'Insubria partecipa a un progetto di ricerca Interreg per capire se il "deflusso minimo vitale" non danneggi la flora e la fauna che vivono nei due bacini

ticino secca

Il Lago Maggiore e il fiume Ticino sono due importanti risorse idriche. Ci sono numerose aree protette, ma anche centrali idroelettriche. Sono un’essenziale risorsa per l’acqua potabile e l’irrigazione; sono attrazioni turistiche per la navigazione e lo sfruttamento delle coste.

La loro portata è sempre controllata, attraverso le dighe che razionano il deflusso. Dal 2009 è imposto, per legge, un livello di “deflusso minimo vitale”, cioè si è stabilita la portata minima necessaria per garantire la sopravvivenza e il rispetto della biodiversità.

Negli ultimi anni, i due bacini idrici hanno fortemente risentito di condizioni climatiche nuove con estesi periodi di secca che hanno fatto scattare l’allarme su diversi fronti.

Ma quali reali conseguenze hanno le variazioni di portata idrica del fiume Ticino sulla flora e la fauna che lo abitano? Lo vuole stabilire una ricerca avviata dall’Ente di gestione delle aree protette del Ticino e del Lago Maggiore di Cameri a cui collabora l’Università dell’Insubria con due diversi filoni di indagine concentrati sulle specie acquatiche e su quelle dell’avifauna.

« L’obiettivo finale di questa ricerca che durerà tre anni – spiega la d.ssa Silvia Quadroni, Post Doc assegnista di ricerca del Dipartimento Scienze teoriche e applicate – è quello di valutare se il deflusso minimo vitale stabilito nel 2009 garantisca la qualità della vita di piante e creature viventi che si muovono dentro e attorno al fiume e al lago. In particolare, verranno posizionate delle sonde lungo il fiume, a valle della diga della Miorina e di quella di Panperduto, per rilevare la quantità d’acqua presente e le condizioni di vita».

Il deflusso minimo vitale autorizza una portata che è del 10% rispetto a quella che, naturalmente, dovrebbe scorrere nel fiume Ticino. Il resto viene prelevato a monte per usi e scopi legati al bisogno umano: « Prima del 2009 non era prevista nemmeno questa soglia. È già stato un passo avanti. Ora vorremmo verificare quali siano le conseguenze sulla biodiversità nei periodi di secca».

In base alle rilevazioni, dunque, verranno stilate delle linee guida condivise in una collaborazione transnazionale per lo sfruttamento delle acque. Il progetto, infatti, è un bando regionale Interreg Italia/Svizzera e vede collaborare, oltre all’Insubria, altri 4 partner.

L’avvio degli studi risale al giugno scorso, leggermente in ritardo rispetto alla tempistica prevista, e i risultati dovrebbero arrivare dopo tre anni.

« I professori Crosa e Martinoli, entrambi dell’Insubria, studiano in parallelo gli effetti della portata dei due bacini: il professor Giuseppe Crosa ed io – spiega la dottoressa Quadroni – ci concentriamo sul fiume Ticino a valle delle dighe, mentre il professor Adriano Martinoli si occupa dell’avifauna con il monitoraggio degli uccelli migratori che transitano dalle riserve umide delle Bolle di Magadino».

Le indagini si concentrano soprattutto nei periodi di secca e i mesi estivi sono quelli più importanti: « Noi vogliamo arrivare a individuare come la portata dell’acqua muti gli indicatori chimico-fisici (ossigeno, temperatura, ph e conducibilità) da cui dipende la qualità del ciclo vitale della flora e della fauna acquatica. Attraverso le sonde di misurazione che verranno posizionate lungo il percorso del fiume Ticino, valuteremo le conseguenze dei cambiamenti sui macroinvertebrati bentonici, cioè larve e insetti. Loro ci daranno le informazioni con cui potremo stilare le linee guida sulla gestione delle acque verificando se “ il deflusso minimo vitale” stabilito nel 2009 sia effettivamente adeguato alle necessità per l’ecosistema del lago e del fiume. Studiamo l’impatto sugli habitat acquatici con modelli sia idraulici che ecologici soprattutto su specie target particolarmente sensibili alla portata dell’acqua».

L’indagine è essenziale: sia il lago sia il fiume sono controllati da un sistema di dighe che calibrano la quantità d’acqua a seconda delle esigenze ma anche delle piogge: « Una grossa portata non è mai un problema – assicura la dottoressa – per questo la ricerca è concentrata sui periodi di carenza, soprattutto se prolungata. Con queste condizioni verifichiamo lo stato di “salute” di alcune specie ritenute indicative. Come il “barbo europeo”, pesce che è stato introdotto e che ha cominciato a ibridare la specie autoctona del barbo comune, molto vulnerabile».

La ricerca è diventata ancora più importante dati i cambiamenti climatici che stanno mettendo a dura prova il lago Maggiore, esposto a lunghi e frequenti periodi di siccità.

Alessandra Toni
alessandra.toni@varesenews.it

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Pubblicato il 01 Agosto 2019
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