Tanjevic mi disse: “Picchio, sei dei nostri”. E per quell’Italia diedi tutto

Alessandro Abbio è stato un uomo importante della Nazionale di basket che vinse l'Europeo 1999, fondamentale nel marcare Danilovic in semifinale. Sabato 9 novembre a Varese la proiezione del docu-film che racconta quell'impresa

alessandro abbio basket

Sabato 9 novembre alle 20,30 – nell’ambito del festival Glocal – alle Ville Ponti di Varese sarà proiettato il docu-film “Parigi 1999 – Vent’anni dopo” dedicato all’ultima vittoria dell’Italia agli Europei di basket. In vista della serata, che sarà accompagnata da un talk show con gli autori Alessandro Mamoli e Simone Raso e con alcuni protagonisti di allora, abbiamo intervistato Alessandro Abbio, guardia azzurra che fece parte di quella squadra irripetibile. Per prenotare il vostro posto gratuito in sala per sabato 9, CLICCATE QUI.

Classe 1971, piemontese di nascita (Racconigi) e formazione cestistica (Torino), Alessandro “Picchio” Abbio ha vinto numerosi trofei sia con la Nazionale sia con il club, che nel suo caso è la Virtus Bologna. Guardia di 1,93, fu una delle colonne dell’Italia a cavallo del 2000 e delle “Vu Nere” che avevano in Sasha Danilovic la star di maggior prestigio. Le strade dei due giocatori si incrociarono nel corso dell’Europeo ’99 su due sponde diverse: il loro duello fu determinante per il risultato finale della semifinale vinta dall’Italia sulla Jugoslavia che, fino a quel momento, pareva imbattibile. Oggi Abbio allena ad Alba dove è assistente della squadra di Serie B e coach della formazione under 18, dopo aver guidato altre squadre giovanili della sue società.

Abbio, a vent’anni di distanza, quale peso ha nel suo palmarés l’oro di Parigi?
«Un successo di grandissima importanza, al quale arrivammo dopo aver perso la finale del ’97 con la Jugoslavia, con una nazionale molto diversa da quella che poi trionfò in Francia e della quale facevo comunque parte. Per me quell’oro fu il coronamento di un sogno iniziato tanti anni prima».

Quando?
«Beh, ho iniziato a giocare a basket a 7 anni: ne avevo 12 quando l’Italia vinse l’oro a Nantes nel 1983. Ho un ricordo nitido di quel successo con i Caglieris, i Villalta, i Meneghin (Dino) in campo: avevo già nel sangue la pallacanestro e sognavo la maglia azzurra. Mi andò bene perché le convocazioni con le selezioni giovanili arrivarono presto e con esse i primi titoli come l’oro europeo under 22 nel 1992; da lì in avanti fu Nazionale maggiore con cui ho avuto l’onore di giocare anche alle Olimpiadi».

Come fu la preparazione di quell’Europeo vincente?
«Per me dura: rischiai seriamente di restare fuori perché mi procurai una distorsione pesante alla caviglia in una delle prime amichevoli contro la Svizzera. Dovetti tornare a Bologna per le visite e le terapie e tra l’altro in quel periodo mi era scaduto il contratto con la Virtus e non lo avevo ancora rinnovato. Per fortuna c’era Tanjevic: il c.t. mi diede due settimane di tempo e attese l’evoluzione del mio recupero. Io feci fisioterapia, poi tornai ad allenarmi col pallone nella palestra Virtus all’Arcoveggio dove mi allenavo da solo e poi andavo a correre, spesso in salita, in un parco a Casalecchio: volevo farmi trovare a buon livello anche dal punto di vista atletico. Mi unii alla Nazionale proprio a Varese dove Tanjevic aveva in programma le scelte decisive. Mi disse: “Ti vedo bene, Picchio, sei dei nostri”. Ero euforico e forse ci diedi dentro ancora di più per onorare quella convocazione così incerta, con una distorsione che rischiava di interrompere un percorso azzurro che durava da anni».

Nel docu-film di Mamoli e Raso lei viene chiamato in causa parlando della vittoria sulla Jugoslavia, frutto anche della sua difesa su Danilovic che da lei venne anche stoppato. Eravate compagni: qualche volta ha preso in giro Sasha per questo?
«No dai, non sono un tipo da battute di questo genere, anche se magari qualche volta, qualcosa mi è scappato! In quella partita marcai Danilovic anche perché lo avevo affrontato tantissime volte in allenamento, alla Virtus. Tra noi era una sfida continua: lo era per me, perché dovevo cercare di limitare un giocatore fortissimo, ma lo era anche per lui perché lo facevo “allenare realmente” in settimana, creando situazioni simili a quelle delle partite ma senza andare oltre il limite. Dopo tanti anni di lavoro insieme, ho cercato di apprendere la sua mentalità, quella di un giocatore straordinario cresciuto fin da ragazzo in squadre di altissimo livello. Batterlo con la Nazionale fu un motivo di soddisfazione, e per me questo significa aver contribuito alla vittoria della squadra limitando un campione».

Come si affrontano avversari del genere?
«Con Sasha dovevi pensare: “Gli faccio fare un tiro cattivo”. Non puoi credere di fermare un attaccante di quel livello con la difesa; il tuo lavoro deve essere quello di contrastarlo, di braccarlo, di farlo arrivare in riserva di carburante al termine dell’azione. Danilovic non è un grandissimo atleta sul piano strettamente fisico, è invece eccellente a livello tecnico: se gli concedi un vantaggio, ti batte sempre. Giocare con lui e contro di lui  stata una grande esperienza di crescita personale e lo stesso vale per gli allenatori e i compagni che ho avuto, ma pure per gli avversari che ho sfidato».

A Varese ricordiamo, ahinoi, un suo canestro pazzesco in gara 3 di semifinale-scudetto, proprio in quel 1999. Quattro secondi per coprire il campo e siglare i due punti della vittoria per la Kinder.
«Me lo ricordo anche io in modo nitido: ricevetti palla in corsa, un fondamentale che i ragazzi di oggi faticano ad apprendere e che invece è assai importante. Palleggiai sulla corsia destra, poi a metà campo mi infilai tra due avversari, forse Poz e Menego. Quella mossa mi garantì campo aperto in diagonale e così attaccai il canestro da sinistra arrivando a segnare sulla sirena. Me lo ricordo bene, ma non dimentico nemmeno come finì quella serie: i Roosters vinsero gara 4 a Bologna e si avviarono a conquistare uno scudetto memorabile. Al di là di quell’azione, Varese è per me un luogo importante: feci una partita clamorosa da ragazzino, in Coppa Italia, contro Wes Matthews e Corny Thompson, con la maglia di Torino. E poi fui sempre spinto a fare bene, anche perché il pubblico mi beccava parecchio e la cosa mi stimolava. Non parlo solo degli ultras: anche in parterre tanta gente si faceva sentire. Masnago resta un posto storico: giocare a basket su quel parquet rimane una cosa speciale».

Damiano Franzetti
damiano.franzetti@varesenews.it

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Pubblicato il 29 Ottobre 2019
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