Terra di leggende il regno delle bocce. La sparizione

È sui campi della trattoria Centrale di Saltirana che i moschettieri lanciavano epiche sfide

bocce

Erano amici, per davvero, legati assieme in modo indissolubile, Andrea, Carlo, Paolo e Filippo. Abitavano tutti in quella piccola frazione del Comune di Castelveccana – Saltirana – sul Lago Maggiore, sponda lombarda, facevano il muratore con passione anche se la professione era dura, in mezzo alle intemperie, freddo polare d’inverno, caldo africano d’estate, e poi lavorare a Milano e dintorni non era proprio il massimo in termini logistici: il mattino in piedi alle cinque, di corsa a prendere il treno delle sei a Caldè per arrivare sul posto per le otto, alla sera rientro alle sette, se non c’erano straordinari da fare, soprattutto durante le stagioni con più ore di luce, graditi comunque perché qualche soldino in più in tasca faceva certamente comodo. Rapida cena e poi a letto che il mattino successivo la canzone non cambiava, il motivo era sempre lo stesso.
Ma quella vita a loro non spiaceva, erano giovani, spensierati, il lavoro non era ritenuto una iattura, anzi, e poi vogliamo mettere al mattino il fiondarsi nella panetteria Giobelli, lì a Saltirana, a comprare qualche “bastone” di pane – una decina, almeno, con l’appetito che non li abbandonava mai -, ma non solo, assaporare il profumo del pane fresco, sbocconcellarne qualche pezzo, croccante e morbido nel medesimo tempo: “Ah, l’è pròpi òn bel mangià òn tòcch de pàn frèsch” diceva Carlo, il più robusto e amante del cibo del gruppo. Poi a Milano si comprava un po’ di salame e di gorgonzola con un bel fiasco di vino, del quale si vedeva sempre il fondo: “Pèr fa minga un tòrt” come affermavano con convinzione. Il geometra dell’impresa, che voleva apparire letterariamente all’avanguardia, li aveva soprannominati i quattro moschettieri, non solo perché erano sempre insieme, ma anche perché Carlo poteva essere benissimo, per struttura, Porthos, e Filippo, il più esile e magro, Aramis; e gli altri due? Moschettieri pure loro, per analogia, se non altro.
Ma non era solamente il luogo di nascita e la professione che li univa, esisteva un altro valore ancora più radicato: le bocce. La settimana era un passaggio immancabile per giungere al sabato e alla domenica, dove, finalmente si andava a giocare a bocce: dove? Ma è chiaro, sui due campi della Trattoria Centrale di Saltirana dove andavano in scena sfide interminabili con in palio i proverbiali spuntini corredati da libagioni adeguate. Il tutto in preparazione alle gare serali per le quali esisteva una specie di patologia inestirpabile, purtroppo sovente delusa per gli impegni lavorativi quasi sempre preclusivi.
Definire Andrea un appassionato era sicuramente una “diminutio”, aveva il culto delle bocce, non solo amava giocarci, ma gli piaceva averne di più tipi, dai colori diversi, un po’ smorti, è vero, sovente monocromatici, verdi, blu, rosse, con alcuni motivi disegnati sulla superficie, tali da renderle diverse. E lui ne comprava set interi, di seconda mano per limitare l’investimento, ma che adorava: le ripuliva con un aggeggio di sua invenzione, le lucidava con cere speciali, di cui si guardava bene di fornire i dettagli di formula, infine le rimirava, a casa naturalmente, con adorazione e quando era costretto ad usarle, quasi era spiaciuto che rotolando sulla terra battuta si sporcassero o riportassero le impronte delle inevitabili bocciate.
Si dà il caso che in quei tempi cominciassero ad entrare in commercio bocce con immagini innovative, molto colorate, screziate e Andrea “ci moriva dietro” sfogliava i cataloghi, invaghendosi ora d’uno, ora d’altro modello: voleva acquistarne un set anche se costavano, ma non importava, non sapeva solo decidersi, le avrebbe volute tutte. Infine andò in un negozio specializzato e, viste da vicino, quelle bocce erano ancora più suggestive: alla fine scelse, dopo una trattativa interminabile, una serie cangiante con colori brillantissimi, intersecati abilmente fra loro, che andavano dal giallo al rosso, con sfumature di un verde languido, tendente al pisello, irresistibili, semplicemente-. Le portò a casa, le mostrò con orgoglio agli amici, ma in seguito non trovava mai il momento di usarle sul campo, malgrado le continue esortazioni. Temeva le conseguenze, che potessero perdere la loro luminosità, che i colori potessero sbiadirsi all’aria aperta, o, peggio, che gli urti le rovinassero in modo irrimediabile.
Passavano le settimane senza che nulla modificasse l’atteggiamento conservativo di Andrea, malgrado Carlo/Porthos non lesinasse le pesanti osservazioni sulla sua: “Ma te see propri òn rembambii, ma comè te compret i bocc per tegnì in cà! Ma met ti in cassafòrta: fòrsi l’è mèj!”
Infine Andrea si decise, le mise nella sacca, nello scomparto casellato per le bocce e lemme, lemme si avviò alla Trattoria Centrale, con l’animo in subbuglio, non sapeva se essere lieto per il varo del panfilo d’alto mare o se essere preoccupato per l’inizio dell’uso, ma si sa che nella vita ogni scelta è suscettibile di dubbi, di perplessità, di possibili ripensamenti, dato che proprio perché scelta comporta un percorso di non ritorno, determina l’impossibilità di riavvolgere il nastro del tempo per farlo ripartire dal momento che si ritiene più opportuno in funzione dell’esperienza maturata.
Depositò la borsa e si diede alla consuete schermaglie con i frequentatori della Trattoria, finché venne il momento di cominciare a misurarsi con l’avversario di turno e di sfoderare il suo personale tesoro. Aprì lentamente la borsa, fece per estrarre le bocce e rimase impietrito, paralizzato senza quasi connettere e rendersi conto di ciò che vedeva: nello scomparto c’erano solo tre bocce, ne mancava una! Non aveva dubbi, ne aveva inserite quattro, non avrebbe avuto senso metterne una in meno, dato che in singolare si gioca con quattro, mai in ogni caso se ne usano tre.
Guardò ovunque per accertarsi che una boccia non fosse uscita inavvertitamente per una chiusura imperfetta della borsa, ma ben presto dovette convincersi che la boccia era sparita.
Cadde in una crisi depressiva profonda, cominciò a guardare con sospetto tutti, amici muratori compresi. Tolse le tre cangianti e le lasciò in un angolo del ripostiglio senza usarle mai, neppure per il gioco di coppia, per il quale erano sufficienti due biglie. Tornò alle sue vecchie blu/verdi, senza lucidarle più, quasi avesse perso la gioia di vivere, senza darsi pace.
E in un’abitazione non molto lontana, in una vetrinetta, illuminata di traverso con una luce ad angolazione calcolata per porre in evidenza la sapiente alternanza dei colori, faceva bella mostra una sfera perfetta, lustra e brillante, solo un poco rattristata dall’inevitabile solitudine alla quale era stata condannata.

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Pubblicato il 29 Novembre 2020
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