Siamo figli anche dei Longobardi

Arrivarono da barbari conquistatori, ma a contatto con i romani diedero vita a una nuova civiltà, racconta la medievalista Elena Percivaldi. Un pezzo della nostra storia riscoperto anche grazie al sito Unesco che compie 10 anni

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Non «un incidente di percorso» nella storia della civiltà d’Italia, ma un passaggio fondamentale, verso ciò che siamo oggi: questo sono i Longobardi, un popolo che gli italiani hanno imparato a conoscere un po’ di più negli ultimi dieci anni, con l’istituzione del sito Unesco (nella foto di apertura: il tempietto di Cividale del Friuli).

Un passo in avanti importante, dopo che per decenni  – se non per secoli – i Longobardi sono stati dipinti come uno dei tanti popoli barbari, distruttore dell’ordine di quel che restava della civiltà di Roma.

«Identificare nei Longobardi non solo un elemento di rottura e distruzione dell’identità classica, ma la nascita di qualcosa di nuovo è acquisizione recente, degli ultimi 50-60 anni» dice Elena Percivaldi, medievalista e giornalista.

«Una lunga tradizione storiografica li ha descritti come presenza fastidiosa e distruttrice, come “incidente di percorso”  nella storia, dico spesso. Contrapposti a Carlo Magno, il re cristiano, percepito e descritto come iniziatore di una fase di arricchimento, di ricostruzione dell’impero».

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La spada di Trezzo, parte di un corredo funebre scoperto nella zona dell’Adda, oggi al Museo Archeologico di Milano

L’identificazione dell’Italia nella civiltà romana – che attraversa i secoli ed è più forte nel Novecento, fino al parossismo quasi macchiettistico del fascismo – ha messo ai margini questo popolo, che nel primo contatto con Roma (5 d.C.) veniva descritto come gens etiam Germana feritate ferocior, popolo più feroce della ferocia germanica.

Quando – cinque secoli dopo – avviene il vero contatto, l’Impero romano si è già disfatto. «Alla metà del 6° secolo c’è un momento di transizione difficile per tutta la penisola: con la guerra greco gotica si era aperta una fase di una decadenza che si accompagna a un crollo delle infrastrutture, ad un impoverimento demografico. In questo contesto i longobardi entrano in Italia e stabiliscono un regno che durerà due secoli e mezzo»

È una fase «lunga e magmatica», la definisce Percivaldi: una stagione certamente anche violenta, ma meno di quanto sia stato tramandato dalle fonti, che per secoli hanno poi trasmesso l’immagine dei longobardi come popolazione feroce e irriducibile. «Il dato archeologico ci mostra come questo quadro fosse frutto di propaganda romana e papale. Le tracce archeologiche invece ci raccontano non un momento traumatico (per quanto violenze e spoliazioni ci fossero), ma non devastante: nelle città non ci sono tracce di completa distruzione e rovina dipinta dalle fonti del tempo».

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Elena Percivaldi

I longobardi conquistatori s’incontrarono con ciò che rimaneva della romanità, con la sua concezione del potere centralizzato, persino di quella civiltà urbana che era in decadenza ma ancora caratterizzava la penisola. «I longobardi sono riusciti a inserirsi in un contesto e a dialogare, anche se non in modo pacifico. Arrivano a superare il particolarismo tribale e la loro eredità pagana legata ai valori della guerra, per dialogare con una popolazione che percepivano diversa ma portatrice di una cultura prestigiosa». La loro capitale da itinerante diventa stanziale, a Pavia, per un secolo e mezzo.

La loro capacità di «inglobare elementi delle popolazioni con cui venivano in contatto», già emersa nel contatto con i popoli delle steppe, ebbe il momento culminante con la  conversione al cristianesimo, che sancisce il ruolo di popolo che diventa «una sorta di cerniera tra mondo germanico e romano-mediterraneo, che ci consegna un’Italia profondamente diversa da quella romana ma che al contempo conservava molti elementi».

Una contaminazione che si ritrova nelle architetture dei siti “del potere longobardo” oggi tutelati dall’Unesco, ma anche nella grande perizia della lavorazione dei metalli, nelle armi e nell’oreficeria, tributaria della tradizione bizantina: elementi che si ritrovano nei musei e nelle mostre.

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La corona di Teodolinda, al museo del Duomo di Monza

Per certi versi sono stati a lungo un popolo schiacciato tra l’identità romana e classica e un più recente uso anche politico delle più antiche radice celtiche. Troppo barbari per essere riconosciuti come parte della civiltà italiana, troppo poco barbari per essere contrapposti a quella tradizione.
E oggi, a dieci anni dal riconoscimento Unesco?
«Ci sono stati una serie di grandi mostre – a Brescia, a Torino, a Pavia – che hanno avuto il merito di svelare i longobardi e il loro ruolo di costruttori dell’Italia» continua Percivaldi, autrice di due volumi rigorosi ma ottimi anche per un pubblico generico (“I Longobardi. Un popolo alle radici della nostra Storia” e “Sulle tracce dei longobardi. Italia settentrionale”, cui seguirà quello sull’Italia centro-meridionale) .

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Il pluteo di San Giovanni di Castelseprio, esposto nella grande mostra di Pavia, passata poi anche a Napoli e all’Hermitage

Uno degli elementi interessanti è la presenza in tutta Italia, lungo tutta la Penisola, come del resto raccontano i siti Unesco: dalla lombarda Castelseprio a Monte Sant’Angelo sul Gargano, dalle gelide acque del Natisone a Cividale del Friuli (che già quasi sanno di Balcani) alle verdi colline del Clitunno in Umbria, da Spoleto a Benevento.

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Il tempietto del Clitunno, in Umbria

Non ovunque la coscienza del passato longobardo incide allo stesso modo: «La percezione in Lombardia non è facile da trovare, se non andandola a cercare con attenzione: della Pavia longobarda si conserva poco, le cripte o poco più, per una serie di ragioni, tra cui il terremoto del 1117 che portò a ricostruire le chiese in forme romaniche. A Monza l’eredità di Teodolinda è molto più conosciuta, sentita, è divenuta genius loci».

Castelseprio – Torba, il programma per la festa di venerdì per il decennale del sito Unesco

«In Friuli invece l’eredità è molto sentita: a Cividale il patrimonio Unesco è dentro alla città, una piccola città, dove fa parte dell’identità. Già dall’Ottocento, quando si scopre la cosiddetta tomba di Gisulfo, che si pensava primo duca del Friuli: fu in realtà una grande messa in scena, per certi versi un falso storico, anche il corredo era prestigioso. Sul piano della percezione è l’inizio della riscoperta dell’identità longobarda».

L’ultimo suo libro parla di “un popolo alle radici della nostra storia”: siamo eredi dei longobardi?
«Sono passati secoli da allora, non c’è una continuità diretta con quel che accadeva a quasi un millennio e mezzo da oggi. L’eredità longobarda si è rimescolata e contaminata con altre». Prima con i franchi, poi con francesi e spagnoli. «Possiamo dire: siamo figli anche dei longobardi».

I barbari conquistatori, che si fecero conquistare dalla civiltà romana. E diedero vita a una nuova civiltà.

Il fascino del Monastero di Torba visto dall’alto

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Roberto Morandi
roberto.morandi@varesenews.it

Fare giornalismo vuol dire raccontare i fatti, avere il coraggio di interpretarli, a volte anche cercare nel passato le radici di ciò che viviamo. È quello che provo a fare a VareseNews.

Pubblicato il 25 Giugno 2021
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