“All’autocanestro di Ignis-Real esultammo tutti. Poi capimmo la fregatura”
Massimo Lodi era presente alla storica partita del 1962. Anni dopo intervistò il coach spagnolo Ferrandiz: "Sognava di allenare a Varese. Ma Meneghin e gli altri vendicarono sul campo quella beffa"

(d. f.) Il sessantesimo anniversario della storica partita tra Ignis Varese e Real Madrid con l’autocanestro volontario dello spagnolo Alocen, e la scomparsa dello stesso giocatore madrileno avvenuta proprio nel giorno del 18 gennaio hanno riacceso i ricordi su quell’avvenimento sportivo. Oggi ospitiamo il contributo di Massimo Lodi, ragazzino tifoso in quel giorno alla palestra di via XXV Aprile e poi apprezzato giornalista. Ecco la sua testimonianza, per la quale lo ringraziamo, che pubblichiamo molto volentieri.
Ho letto con interesse e curiosità il ricordo di Alocén e dell’autocanestro del ‘62. Quella sera alla Casa dello Sport c’ero, e vissi come al solito la partita accanto a Franco Garbosi, il figlio maggiore di Rico, allenatore dell’Ignis. Compagni di scuola e coinquilini, ci issammo secondo abitudine sulla spalliera svedese in fondo a destra, proprio di fronte al “luogo del delitto”: il tabellone sud.
Quando il madridista segnò per noi, esplose l’entusiasmo. Nessuno all’istante intese la fregatura, pensando irrazionalmente alla pirlata d’un blanco impazzito. Capito dai tifosi come stessero le cose, la comitiva del Real faticò a lasciare la palestra dei pompieri senza subir danni fisici.
Più di dieci anni dopo, avviatomi al mestiere di giornalista e scrivendo di sport, intervistai al Palace Hotel Pedro Ferrandiz, il tecnico spagnolo che aveva deciso l’autocanestro, affidandone l’esecuzione ad Alocén. Era tornato a Varese per affrontare quella ormai nota come Valanga Gialla.
Gli chiesi se la storica scelta fosse stata in qualche modo prevista o invece il frutto d’un prodigioso riflesso intuitivo. Raccontò che all’ipotesi dell’utile harakiri aveva più volte pensato, nel caso si fosse presentata l’occasione. Non era mai accaduto, successe a Varese e il piano scattò. (foto in alto: soymadridista.com)
Don Pedro, a taccuino chiuso, si disse orgoglioso della furbata. Per due motivi. Il primo: aver dimostrato qualità di conducator freddo e cinico, anziché troppo caliente come gl’imputavano. Il secondo: essersi tolto lo sfizio d’esibire una scaltrezza maggiore di quella degl’italiani. Che ammirava, o addirittura venerava, come astuti padri dei latinos.
Chiusi la chiacchierata domandandogli se gli sarebbe piaciuto allenare a Varese. “Un sogno”, fu la risposta del coach che stravedeva per Ossola e Meneghin. L’indomani proprio Aldo e Dino – assieme a Manuel, Dodo, Flabo eccetera – fecero vedere al Real i sorci verdi. Vendicando l’autocanestro con l’autodafé, una condanna al supplizio cestistico che sarebbe valsa a lungo non solo per gli spagnoli.
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