Adolescenti, videogiochi e dipendenze: quale compito per gli adulti?

Dal caso Coca Web agli studi su dipendenze e dopamina: una riflessione oltre i divieti, per aiutare i genitori ad accompagnare la crescita dei ragazzi

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Si parla sempre di più dell’impatto generato dai videogiochi e dalle nuove tecnologie sulla vita degli adolescenti di oggi. C’è chi li teme, chi li osanna, chi non sa che pesci pigliare.
E in tutto questo (giustissimo) marasma di opinioni e paure, la primavera scorsa ha visto la luce “Coca Web: una generazione da salvare”, il saggio che porta la firma del senatore Andrea Cangini e che ha scatenato una vera e propria mobilitazione di gran parte del mondo dell’educazione.

La tesi sostenuta nel libro è che che il disagio psichico e sociale delle generazioni più giovani (associato anche a un ipotizzato calo del quoziente intellettivo) sarebbe la diretta conseguenza dell’esteso uso di social, video, chat e videogiochi. Uso che, secondo il Senatore, non può che degenerare in abuso, dal momento che il web e il videogioco – esattamente come la cocaina – determinano l’aumento della produzione di dopamina, il neurotrasmettitore del piacere che sta alla base di molte dipendenze.

Ma quindi qual è la soluzione per “salvare i giovani”?
Stando alle pagine di “Coca Web”, l’unica sembrerebbe vietare videogiochi e nuove tecnologie. Una soluzione attraente, certo, ma realmente efficace? Purtroppo no. E a dirlo non siamo solo noi del Progetto Sakido, ma anche una folta schiera di accademici, professionisti della salute mentale e dell’educazione, che mettono in guardia da questa narrazione parziale e de-responsabilizzante.

A questo link la lettera aperta di Viola Nicolucci (psicoterapeuta), Mario Petillo (giornalista) e Francesco Toniolo (professore) al Senatore Cangini

Cosa non funziona nella tesi di Coca Web?

Il primo nodo problematico è quello della quantità.
È assolutamente vero che giocare ai videogiochi rilascia dopamina – il neurotrasmettitore del piacere – ma questo avviene anche in seguito ad altre attività gratificanti come l’alimentazione, lo sport, il sesso, la lettura, l’apprendimento o la meditazione. Niente a che vedere, invece, con l’aumento di dopamina innescato dalla cocaina, che è nettamente superiore. A provarlo ci sono anche degli studi, come quello di Koepp e colleghi (1998), secondo il quale giocare ai videogiochi aumenta i livelli di dopamina nel cervello del 100%, mentre l’utilizzo di droghe ne provoca un aumento del 1.000%.

E poi c’è un’altra questione da prendere in considerazione, quella della responsabilità.
Non stiamo negando in alcun modo l’esistenza di un disagio tra i più giovani, né la dipendenza da videogiochi, anzi. Ma ci chiediamo: è davvero così semplice trovare il colpevole e risolvere il caso? Ha senso – ancora una volta – accusare il comportamento degli adolescenti o, addirittura, i videogiochi? Non siamo forse coinvolti anche noi adulti, in questa faccenda di cui conosciamo ancora troppo poco?

Le (lecite) paure degli adulti e la conoscenza necessaria

A che videogiochi giocano i nostri figli? Per quanto tempo? Con chi?
Sono tantissimi i genitori che non hanno gli elementi per rispondere a queste semplici domande. Ma sapere di più sulla questione, senza pregiudizi, è secondo noi il primo passo per riuscire ad accompagnare i nostri figli in un percorso di videogioco sano.
In fondo, e questo è certo, i videogiochi non scompariranno. Tanto vale imparare a conoscerli.

Il rischio, altrimenti, è quello di farsi prendere dal panico, dalla frenesia del divieto, mentre il reale nocciolo della questione – il disagio degli adolescenti – si allontana.
Del resto è del tutto naturale far cadere lo stigma e la colpa su ciò che conosciamo meno e che, quindi, ci spaventa di più.

“In passato sono stati la musica rock e i giochi di ruolo – dice Toniolo, docente dell’Università Cattolica di Milano – oggi è il turno delle nuove tecnologie con i social media e i videogiochi. Il panico nasce da una disconnessione tra generazioni, dove chi è nato prima definisce le proprie esperienze come misura del bene e del male.
Ma quindi come si esce da questo impasse? Conoscendo ciò che non conosciamo.

Il videogioco come strumento di crescita e narrazione di sé

I videogiochi, oggi, sono una modalità di narrazione dell’adolescenza e, se non l’ascoltiamo, è perché abbiamo deliberatamente scelto di essere sordi.
Molti ragazzi e ragazze – nel settore videoludico – ci lavoreranno anche. Basta guardare i dati di crescita del comparto che, ad oggi, genera già un fatturato superiore a quello del cinema mondiale e dello sport americano … sommati insieme!

Il videogioco, poi, assolve anche tutta una serie di funzioni di apprendimento logico e capacità immaginativa che in passato avveniva attraverso altri mezzi. Non sono solo intrattenimento, quindi, ma anche formazione e crescita.
Un esempio su tutti è Omori, il videogioco che sensibilizza sul tema degli Hikikomori. E proprio per i ragazzi in Ritiro Sociale, per esempio, il videogioco rappresenta spesso l’unica finestra sul mondo. L’ultimo slancio verso la socialità.
Noi di Sakido – per esempio – siamo molto preoccupati, quando abbiamo a che fare con ragazzi in ritiro che hanno rinunciato anche a quella.

Chiusi in casa, il fenomeno degli Hikikomori esiste anche in provincia di Varese

Quando il videogioco diventa pericoloso

A metterci in allarme è quando videogiocare è l’unico modo che il ragazzo ha per conoscere se stesso. Quando è l’unico contatto col mondo esterno e l’unico interesse. In quel caso sì, c’è il rischio di una dipendenza e – come si può ben vedere – si può diventare dipendenti da molte cose, non solo dai videogiochi.
È l’assenza di varietà e di alternative, il vero campanello d’allarme. E capire perché è semplice: proviamo a immaginare di avere una sola fonte di soddisfazione personale (e quindi di dopamina). È ovvio che continuerò a fare solo quello, in maniera compulsiva.

Il compito di noi genitori, quindi, non può essere quello di negare e vietare le fonti di malessere, quanto più quello di accompagnare e sostenere i ragazzi per aiutarli a individuare nuove di fonti di benessere.
Dal controllo all’accompagnamento:
esserci (come possiamo).
Troppo allarmismo non fa bene a nessuno, quindi. Non aiuta la coscienza critica, né la crescita.

La nostra proposta è allora quella di trasformare l’ottica del controllo in un’ottica di accompagnamento. Far passare ai ragazzi il messaggio che noi genitori non abbiamo paura di quello che li riguarda. Che, certamente e giustamente, non possiamo essere dappertutto, ma che – nonostante tutto – non rinunciamo ad esserci. Perché come dice il già citato Toniolo, “tutte le nuove forme di sofferenza adolescenziale, spesso sono collegate a nuove forme di assenza genitoriale”.

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