L’arca di Tradate riporta il dialogo quando le parole non ci sono più

Il progetto “Città amica” basato sulla comunicazione aumentativa alternativa (CAA) permette a chiunque abbia un problema di comunicazione di potersi esprimere e acquisire maggiore autonomia nella vita quotidiana

Tradate Varie

Una lingua condivisa è una precondizione necessaria del nostro vivere in società e per entrare in relazione con gli altri. E quando non si conosce una lingua, si finisce spesso per comunicare a gesti, mostrando figure, indicando oggetti o persone. I bambini in questa pratica sono dei maestri e riescono a superare qualsiasi ostacolo con i loro pari.
Ma cosa accade quando una persona a causa dell’età, di una malattia o di una disabilità non riesce a esprimersi a parole, almeno non a un livello tale da farsi capire? Fare gesti semplici, che tutti noi diamo per scontati, come, per esempio, comprare il pane o il giornale, si trasforma in un’impresa quotidiana e a lungo andare un problema che porta all’esclusione delle persone, soprattutto le più fragili, dalla comunità di riferimento.

Da alcuni anni esiste una tecnica chiamata “comunicazione aumentativa alternativa” (CAA) che favorisce invece l’inclusività delle persone che hanno appunto problemi di comunicazione. Tra le prime realtà ad averla utilizzata in provincia di Varese è stata L’arca, una cooperativa sociale di Tradate che  gestisce servizi sociosanitari ed educativi e ospita circa 80 ragazzi. Qualche anno fa la cooperativa, per promuovere una città più inclusiva, ha realizzato, in collaborazione con altri enti del territorio e il sostegno della Fondazione comunitaria del Varesotto e dall’8 per mille della Chiesa Valdese, il progetto “Città amica”. «Per quanto c’era una predisposizione dei vari enti territoriali all’inclusione – spiega Erika Martegani, curatrice del progetto e responsabile della ricerca e sviluppo della cooperativa L’arca – c’erano poi oggettivi limiti tecnici che non permettevano ai nostri ragazzi con disabilità gravi e gravissime di avere accesso ai vari servizi. Per esempio, una persona che non comunica verbalmente può entrare in un negozio, ma non può avere accesso ai prodotti o ai materiali di cui ha bisogno».

Nasceva quindi l’idea di creare un vero e proprio percorso formativo e al tempo stesso informativo. Detta così sembra fin troppo facile. In realtà non si trattava solo di coinvolgere i vari soggetti presenti sul territorio, dalle istituzioni ai negozianti, ma di convincerli a seguire anche un percorso di apprendimento. «La comunicazione aumentativa alternativa – continua la curatrice del progetto – ti permette di elaborare una strategia per entrare in relazione con tutte quelle persone che non sono verbali o persone che non riescono ad esprimersi con la nostra lingua. È una comunicazione che si sviluppa attraverso tecniche con il supporto di immagini anche se non si esaurisce solo nel mostrare un simbolo».

Lo staff della cooperativa, grazie all’aiuto degli stessi ragazzi, ha elaborato tabelle tematiche e strumenti di comunicazione da condividere con uffici pubblici e commercianti. Il cerchio lo ha chiuso la tecnologia digitale che oggi permette a tutti i soggetti in campo di dialogare. «Quando i nostri ragazzi entrano in un negozio – spiega Erika Martegani – possono, senza l’uso delle parole ma con i tablet, le applicazioni e con le tabelle a tema, acquistare un giornale, comprare il pane fare una merenda al bar da soli perché la memoria visiva è facilmente condivisibile a tutti i livelli.
 Tutto questo li rende autonomi e fa bene allo loro autostima».

All’esterno dei negozi e degli uffici che hanno aderito al progetto sono stati apposti degli adesivi, una sorta di certificazione che rende questi esercizi riconoscibili. I negozianti che hanno partecipato alla formazione ora sono dei facilitatori di comunicazione aumentativa alternativa e pertanto possono utilizzarla con qualsiasi persona disabile o con chiunque abbia un deficit linguistico. Così come con i bambini piccoli non verbali o con un turista straniero che non conosce la lingua italiana, perché i simboli usati sono facilmente interpretabili. 
Si tratta di un cambiamento notevole anche per i genitori di questi ragazzi perché questa esperienza apre nuovi spazi di relazione e di vita condivisa all’interno della loro famiglia. Fare una consumazione al bar tutti insieme è diventato più semplice perché ad accoglierli c’è una comunità consapevole e attiva nello sviluppo del progetto.

«Non dimentichiamo che non è passato molto tempo dall’abolizione delle cosiddette classi speciali – conclude Erika Martegani – perché un tempo il disabile veniva nascosto quasi  fosse una vergogna. Bisogna guardare alle possibilità e non ai limiti delle persone e se la possibilità è che si possano comprendere le immagini condividiamone il più possibile e avremo più possibilità per tutti».

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 08 Febbraio 2023
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