“Come è nata l’università dell’Insubria, 50 anni fa”

L'intervento del giornalista Gianni Spartà in Salone Estense a Varese, nel giorno dell'anniversario di nascita dell'Università dell'Insubria, che quest'anno compie 25 anni. Ma in realtà ne compie molti di più

25 anni università dell’Insubria, premio Riemann

Pubblichiamo integralmente l’intervento del giornalista Gianni Spartà in Salone Estense a Varese, nel giorno dell’anniversario di nascita dell’Università dell’Insubria, che quest’anno compie 25 anni. L’occasione era data dalla cerimonia che festeggiava il raggiungimento di questo importante obiettivo, insieme al conferimento dal premio matematico Riemann. In questo frangente il collega ha raccontato alcuni retroscena da lui personalmente vissuti, legati alla nascita dell’Università, la cui nascita va portata molto più indietro nel tempo: al 15 gennaio 1973

Il 14 luglio non è una data qualunque, è l’anniversario della Presa della Bastiglia, e d’altra parte a pensarci bene fu una rivoluzione, anche se di velluto, dalle nostre parti la conquista di una università statale. A volte le coincidenze trasmettono riflessioni o presagi.
Fu una rivoluzione perché scontato e prevedibile non era che un territorio orgoglioso delle sue fortune economiche e paesaggistiche di punto in bianco prendesse a bramare ben altro: l’accademia, la formazione scientifica, sempre fabbriche sì, ma di lauree e dottorati.
L’impresa poteva sembrare un fuori programma altezzoso ma solo a chi ignora alcuni fatti. Qui vicino in via Bizzozero c’è una targa sulla casa di Camillo Golgi, premio Nobel per la Medicina nel 1906 quando per  la letteratura il solenne riconoscimento toccò a Giosuè Carducci. Era bresciano ma il rifugio dell’anima per le sue ricerche fu Varese. E quante strade della città sono intitolate a personaggi che hanno cambiato qualcosa nel pianeta della conoscenza: due nomi, Luigi Sacco e Scipione Riva Rocci. Ma potremmo citare altri celebri ricercatori Giulio Bizzozero, Ottorino Rossi, Rina Monti, Emilio Veratti. Per dire che lo studio e il pensiero hanno radici storiche profonde in questa fetta di nordovest e che quanti ci considerano terra di laghi, ma arida di impegno intellettuale, si sbagliano.

Vengo al tema che mi è stato assegnato: non 25 anni di Insubria, bensì il doppio esatto. Su una ipotetica moviola del tempo scorrono immagini (possono partire le foto) di quanto ho avuto in sorte di raccontare per ragione del mio mestiere da quando il 15 gennaio del 1973 esordirono a Varese corsi pareggiati del secondo triennio di Medicina e Chirurgia gemmati da un antico e prestigioso ateneo, quello di Pavia. L’ambientazione si trovava in uno scantinato del reparto di Geriatria all’ospedale di Circolo. Fu un lampo improvviso, una novità annunciata con un articolo in prima pagina sulla Prealpina che col direttore di allora Mario Lodi aveva deciso di dedicare interesse continuativo a una vicenda di stampo epocale.
Sembrò una scommessa estemporanea la dislocazione in questo territorio quando le università storiche erano non solo sovraffollate, specie in alcune facoltà, ma anche preda di turbolenze. Quanti ricordi di via Festa del Perdono, Milano, teatro di battaglie tra celerini e studenti: fumogeni da una parte, sassaiole dall’altra. Esami saltati, tutti a casa per evitare guai.
E’ significativa la risposta di Oscar Luigi Scalfaro, ministro dell’Istruzione, a quanti erano andati a chiedergli a Busto, dove inaugurava un centro di calcolo, come vedeva lui, da uomo di governo, l’idea dei corsi pareggiati. Egli disse ai questuanti: “Nulla è più definitivo del provvisorio, in Italia. Andate avanti, datevi di fare”.

Ma chi erano quelli che dovevano andare avanti e dovevano darsi da fare? Mario Ossola, sindaco democristiano di Varese, tisiologo, ex partigiano bianco, Giovanni Valcavi, presidente dell’ospedale di Circolo, avvocato socialista accreditato nei salotti buo0ni dell’alta finanza, Fausto Franchi, imprenditore di Saronno, presidente della Provincia. C’entrava la politica? Ovvio, ma in una declinazione diversa da quella percepita oggi. C’entrava in vero la classe dirigente con le sue ambizioni e le sue capacità. Questo era il tratto caratteristico della politica non solo Lombardia. Questa la chiave di lettura storica. Quando nacquero le regioni nel 1970 Milano scelse come primo presidente un uomo del fare, l’esponente di una dinastia industriale, Piero Bassetti. C’entravano i poteri forti? Anche, ma provenienti da retrovie abitate da personaggi che sapevano dove mettere le mani e che desideravano lasciare una traccia nel tempo.
Visionari? Certo visionari con spalle abbastanza larghe da poter sfidare la contrarietà che fu feroce.

Se potessero parlare i muri di questo salone (Il Salone Estense a Varese, ndr) riferirebbero gli echi di parole grosse nei confr0nti di una creatura destinata, secondo alcuni, a soccombere tragicamente. Curioso che i più infervorati consiglieri comunali iscritti al partito del no fossero anche medici.
Sta di fatto che quel giorno di gennaio del 1973 – c’erano ancora le luminarie di Natale, era caduta la neve nella notte – un gruppo di giovani visi pallidi, futuri dottori trasferitisi avventurosamente da Pavia e da Milano, stava di fronte al professor Delfino Babieri, primario del Circolo. Dove non tutti erano allineati nel favorire il nuovo corso. Lezione di patologia medica, banchi recuperati alla meglio, dall’alto la benedizione del rettore dell’università pavese Antonio Fornari e del preside di facoltà Mario Cherubino.
E cominciava l’avventura universitaria in una città che con alcuni dei suoi leader aveva capito una cosa: cominciavano a sbriciolarsi i primari economici, tirava aria di trasferimenti altrove per centri decisionali di banche e grandi industrie, anche lo sport che aveva fatto sognare i varesini e richiamato inviati di grandi giornali per narrare le gesta di Morse e di Anastasi, fiutava un ridimensionamento. Non c’è ciclo della vita
che non contempli salite, traguardi e poi discese. Ecco che l’università si poteva rivelare una nuova vocazione, fresca perché mobilitava le nuove generazioni.

Oggi è giorno di festa e quindi la narrazione deve sorvolare sui periodi bui. Messa in moto la giostra, con il lancio di Medicina che doveva diventare il secondo dipartimento di Pavia; con l’istituzione a Varese di una facoltà di Biologia, auspice il rettore della statale di Milano Paolo Mantegazza, il quale villeggia alla Rasa; e infine con l’arrivo sempre dall’ateneo pavese di corsi di Economia, passava il tempo, calavano i venti contrari, ma cominciava a serpeggiare la domanda galeotta: e adesso chi paga il conto, chi si accolla le spese dei corsi, delle sedi, del personale?

Gli industriali si sono sfilati dal consorzio universitario andando a investire in un ateneo privato a Castellanza, la Provincia alla lunga resta sola a finanziare l’università ancora lontana dal traguardo dell’autonomia. Ed è proprio la Provincia che mette a disposizione negli anni 90, presidente è Massimo Ferrario, l’ex collegio San’Ambrogio di sua proprietà per la sede del rettorato, mentre tra l’ospedale di Circolo e Bizzozero prende forma la cittadella degli studi oggi arricchita da un campus.
Sono gli anni in cui l’università c’era ma non c’era ancora. Gli anni più insidiosi durante i quali qualcuno ipotizza il peggio: se i conti non tornano, se Roma non ci sente, stacchiamo la spina.
Sfuma il pessimismo sul tramonto del secolo. Fanno quadrato attorno a Renzo Dionigi, che dal 98 sarà il primo rettore, forze capaci di valorizzare le energie utili al grande salto dell’autonomia.

L’università si chiamerà dell’Insubria e io conservo una bottiglia di Fernet Branca recapitatami alla Prealpina dai deputati Giancarlo Giorgetti e Giovanna Bianchi: avevamo scritto che bisognava abituarsi a un nome indigesto, seppur simbolo di una felice intuizione geopolitica e storica. Felice quanto il colpo decisivo del ministro Luigi Berlinguer il quale ha capito che l’unico modo per fa nascere un nuovo ateneo statale autonomo nel Nordovest lombardo era il parto gemellare Varese-Como. Nessuna delle due città da sola avrebbe avuto quello che fieramente ha ricevuto in dote.
Bisogna preservalo e rispettarlo quest’asse accademico anche alla luce delle nuove vie di collegamento ferroviario tra le due province aperte nel frattempo. Bisogna non disperdere l’idea, che fu vincente, di un polo universitario omogeneo per tanti aspetti.
Insomma, venticinque di faticosi preparativi, sommati a venticinque di partita effettiva. Il risultato è cinquanta, messo secolo a cavallo di due millenni. Trovandomi immerso tra matematici, CVD: come volevasi dimostrare. Grazie

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Pubblicato il 17 Luglio 2023
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