Donne vittime di violenza e quel mondo sommerso di non denunce
Martedì 13 marzo l'evento, promosso da Anemos Lombardia e Tavolo per la Pace Alto Verbano, che ha raccolto le importanti testimonianze di Filomena Lamberti, Luana Vivirito e Grazia Biondi
“Avevo paura di morire”, “ora sono libera”, “ho riacquistato la mia identità”, “denunciate”. Sono solo alcune delle frasi riecheggiate mercoledì 13 marzo nella gremitissima Colonia Elioterapica di Germignaga in occasione dell’evento: “Sopravvivere alla violenza di genere”.
Un evento promosso dal Tavolo per la Pace dell’Alto Verbano in collaborazione con Anemos Lombardia, che ha “accolto” le testimonianze di Filomena Lamberti, vittima di “identità”; Luana Vivirito, vittima di violenza; Grazia Biondi, giurista e presidente dell’Associazione Nazionale Manden, anche lei vittima di violenza; Elisabetta Brusa, avvocata del foro di Varese; e Rosalina Di Spirito, presidente del Centro Antiviolenza Donna Sicura. Una serata condotta dalla docente dell’Università dell’Insubria di Varese, Paola Biavaschi, la quale ha focalizzato l’attenzione sul percorso della fuoriuscita dalla violenza, partendo dalla presa in carico della donna fino al suo reinserimento nel tessuto sociale, libera da ogni situazione di abuso coercitivo.
In modo particolare, nel momento successivo alla denuncia da parte di una donna, l’avvocata Brusa ha condiviso un ritratto chiaro della situazione emotiva che spesso si manifesta. Ha descritto come la donna si senta vuota, sottolineando l’impotenza che lei stessa avverte quando le viene rivolta la domanda “Ma adesso cosa succede?”. Brusa ha chiarito che, in questo contesto, né lei né il carabiniere che ha raccolto la denuncia possono fornire una risposta adeguata; è infatti compito del pubblico ministero decidere sul destino dei fascicoli, che potrebbe portare all’archiviazione per mancanza di prove o al rinvio a giudizio per avviare un procedimento penale contro il maltrattante.
«Questo momento- spiega Brusa – rappresenta il punto in cui la donna richiede un sostegno e un’assistenza costanti, senza mai sentirsi abbandonata. E anche quando un processo si conclude con una condanna, vi assicuro, le donne non provano gioia. Il novanta per cento di loro si sente responsabile, mentre il restante dieci piange o rimane in silenzio. È per questo che è imperativo accompagnare, accudire e rassicurare la donna sulla correttezza della sua scelta di denunciare. È improbabile che esca vincitrice da questa situazione di violenza, ma almeno possiamo avere la consapevolezza di aver fatto ciascuno la nostra parte per aiutarla a liberarsi da questa spirale».
Questo lo sa bene Grazia Biondi, che dopo 10 anni è riuscita a uscire da un vortice di violenza, soprattutto psicologica. «Non crediate che la violenza abbia età o status sociale – dice con fermezza Biondi -, la violenza può arrivare all’improvviso, ed è difficile a volte riconoscerla. Io quando ho incontrato il mio ex marito volevo fare la giurista, era il mio sogno nel cassetto ma alla fine sono finita nel suo cassetto, che è poi diventata la mia prigione. Non avrei mai immaginato di poter essere vittima di violenza. Ecco perché, dopo aver trovato la forza di uscirne, ho deciso di creare gruppi di mutuo aiuto e l’associazione Manden. Quest’ultima vuole fungere da ponte tra i centri antiviolenza e le donne che subiscono violenza ma esitano a denunciare. Le donne oggi non vogliono denunciare, c’è troppo sommerso».
Ad uccidere le donne, aggiunge Biondi, non sono solo i maltrattanti, autori dei reati, ma anche l’indifferenza e il pregiudizio. «Si parla di donne, ma quante davvero parlano con le donne? – chiede con amarezza -. Pochi capiscono che quando una donna decide di denunciare, è perché spesso ha perso la propria identità. Ho pensato che la denuncia mi avrebbe salvata, ma ancora oggi, con la mia associazione, combattiamo la violenza istituzionale. È un problema che richiede un intervento urgente».
E proprio a proposito di “violenza istituzionale”, a fare da “spartiacque” nell’incontro è stata la storia di Filomena Lamberti: «sono stata la prima donna in Italia ad essere stata sfigurata con l’acido – ha aperto duramente Lamberti – e quale è stata la condanna? Dopo 30 anni di violenza? 18 mesi».
Filomena Lamberti oggi ha la voce di chi si sente finalmente libera e a colpire è la lucidità con cui ripercorre quegli anni di violenza, fino al 2012, quando il suo ex marito l’ha sfigurata gettandole addosso dell’acido mentre dormiva.
«Per trent’anni ho vissuto nel terrore, temendo sia lui che gli assistenti sociali che potessero portarmi via i miei figli – dice Lamberti -. Per loro ho atteso in silenzio tanto tempo. Poi sono cresciuti, ed era giunto il momento di riprendere in mano la mia vita» Ma lui non glielo ha permesso, non l’ha accettato.
«Pensava che sfigurarmi mi avrebbe confinata in casa, ma io sono uscita. Ho raccolto la forza necessaria per raccontare la mia storia, sperando che altre donne non debbano passare attraverso lo stesso inferno e interrompano immediatamente relazioni nocive e violente. È una missione per le altre donne, su questo bisogna concentrarsi – afferma con determinazione Lamberti -. Raccontare, testimoniare che un cambiamento di vita è possibile. Un ragazzo o una ragazza che cresce in un ambiente familiare violento potrebbe pensare che sia normale subire o infliggere violenza» aggiunge Lamberti che, prima di lasciare la parola a Rosalina Di Spirito, presidente del Centro Antiviolenza Donna Sicura, sottolinea che ai suoi tempi non esistevano centri antiviolenza o case rifugio.
Di Spirito, in ultimo, descrivendo il lavoro quotidiano e intenso del centro, ha annunciato l’arrivo imminente di nuovi fondi per la creazione di case rifugio sul territorio, dove lei e il suo team lavorano instancabilmente, giorno e notte, con dedizione.
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