Austin è una città bizzarra (o forse lo era)
È capitale del Texas e “capitale della musica dal vivo”, città weird, democratica in un uno Stato conservatore. Ma ora fronteggia gentrificazione e crescita che esclude: una storia raccontata sabato a "NomiCoseCittà" a Cardano, con La McMusa, David Grissom e Andrea Parodi

«Austin non è anonima, non è grande, non è repubblicana. Austin non è tipica, non è turistica, non è razzista».
Austin è la città weird, bizzarra, anomala: capitale del Texas ma diversa dallo Stato di cui fa parte, che è uno dei più conservatori degli Stati Uniti.
La definizione iniziale è di Marta Ciccolari Micaldi, autrice e guida letteraria, più nota con il nickname la Mc Musa, che a Austin è tornata più volte, tanto da cogliere in pieno la trasformazione che la città sta vivendo in modo evidente. Dove oggi rischiano di prevalere «conformismo e spersonalizzazione», come dice il titolo dell’incontro che terrà sabato 17 marzo nell’ambito della giornata dedicata a Austin nel ciclo “NomiCoseCittà”, al circolo Quarto Stato a Cardano.
(Foto di apertura: John Rogers su Flickr)
Partiamo dall’inizio: quando nasce il mito di Austin come città anomala rispetto al Texas e creativa?
«Il mito, come lo chiami, nasce intorno agli anni Novanta. E allora non era un mito, era un dato di fatto. Negli anni Settanta-Ottanta la città aveva iniziato a industrializzarsi e a specializzarsi nel tech, qui nasce Dell, s’insedia Ibm. Poi la crisi negli anni Novanta bloccò la crescita ma favorì la proliferazioni di musicisti, creativi: gente weird, un po’ bizzarra, che si trasferiva lì, in un luogo che non aveva la fama di NYC o San Francisco ma dove la vita era economica. Si concentrarono molti artisti e musicistim in particolare: divenne in quel periodo la capitale della Live music, con centinaia di luoghi dove si suonava. Già prima in un locale simbolo, l’Armadillo, Willie Nelson aveva costruito la sua fama».
E lo slogan?
«Nasce negli anni Novanta, quando l’Armadillo aveva già chiuso e si era nella fase di passaggio, Austin iniziava ad essere nota in giro per gli Stati Uniti. Arrivavano soprattutto persone bianche, ma era una città dove chiunque poteva fare quello che voleva, non c’erano regole stringenti, il mercato immobiliare era ancora abbastanza fermo, le tasse erano basse. Era anche una città dove ci si occupava molto di politica, essendo la capitale dello Stato. L’Università era un luogo di creazione, tanto che il suo slogan era ed è “Quel che comincia qui cambia il mondo”».

Nella fase “d’oro” della città il nome di Austin ha iniziato ad essere più nota negli Usa e negli anni Duemila anche fuori dagli Stati Uniti, ad esempio con il grande evento del festival South by Southwest (SXSW), che è un festival musicale ma si occupa anche di musica e di nuove tecnologie.
Una fase quasi esplosiva, in cui si accentua anche il carattere bizzarro. «Dal 2005 in avanti – continua La McMusa – c’è stata una crescita fuori controllo, mentre la città resta “un mirtillo su una torta di more”: una città democratica in un mare repubblicana. Le tasse basse attraevano le imprese tech. È un luogo di sperimentazione, ma al contempo qui sono nate anche le teorie del complotto più assurde, come il “pizza gate”».

Mentre l’esplosione della silicon valley rendeva più escludente San Francisco e la California, Austin ha vissuto una nuova fase di espansione.
«Ma questo ha prodotto negli ultimi dieci anni una gentrificazione insostenibile, in particolare dal 2019. Una città che esclude». La crescita resta marcata, ma fatta di diseguaglianze e sostituzione della popolazione: «Oggi arrivano ad Austin trecento persone al giorno, ma se ne vanno duecento al giorno: diventa ogni giorno di più una città gentrificata e bianca».
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Marta Ciccolari Micaldi interverrà alle 19 di sabato 17 marzo al primo appuntamento della tappa dedicata ad Austin, nel ciclo “NomiCoseCittà” al circolo Quarto Stato.
Alle 21.30 segue una serata di musica e racconti sulla città con i musicisti David Grissom, Andrea Parodi Zabala, Riccardo Maccabruni e Alex Gariazzo della Treves Blues Band, “dal blues di Stevie Ray Vaughan alle ballate di Townes Van Zandt, senza dimenticare suoni e contaminazioni delle terre di confine con il Messico”. Qui il programma
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