Il Delta dell’Okavango dietro casa: viaggio in kayak sul lago di Varese

Il racconto di una gita lungo le sponde immersi in una biodiversità che lascia stupefatti (di Giuseppe Geneletti)

lago di varese

Ci sono giornate che partono come un invito e finiscono come un’epifania. Giornate in cui il territorio che conosci da una vita si ribella al cliché della provincia e si rivela, all’improvviso, come un altrove esotico. Questo è il racconto di un piccolo viaggio. In kayak. Sul lago di Varese. Ma potrebbe benissimo essere la cronaca di una spedizione tra i meandri del delta dell’Okavango, un fiume dell’Africa sud-occidentale ed è il nono fiume più lungo dell’Africa (circa 1.600 km). Perché la meraviglia, a volte, abita dietro casa.

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Gita in kayak sul lago di Varese, sembra il Delta dell’Okavango 4 di 9

Il primo maggio ero nervoso come si è nervosi prima di un primo appuntamento. Aspettavo un amico, uno di quelli veri, con cui avevo condiviso anni fa avventure acquatiche e silenzi profondi, pagaiando sui fiumi del Nord Italia. Da allora, lui ha attraversato mezzo mondo: ha vissuto tra i villaggi del Congo e le terre gelate della Norvegia, e ha sempre avuto un talento per riconoscere la bellezza nei luoghi che gli altri trascurano. Quale miglior test, dunque, per vedere se il nostro lago avrebbe saputo reggere il confronto?

Il mio kayak, un vecchio Rainbow Twin, era fermo da anni. Quasi cinque metri di lunghezza, cinquanta chili di plastica gialla-arancione che ancora portano addosso l’odore delle prime avventure. Non ho le attrezzature per caricarlo in macchina, così l’ho sganciato dal tetto del garage e, con manovre da equilibrista incerto, l’ho sistemato su un carrellino a due ruote. La discesa da Lomnago al Lido di Bodio, poco più di un chilometro, mi è sembrata la scalata del Bianco (che ho fatto davvero) al contrario: sudore, ansia, e il continuo sospetto che tutto potesse rotolare rovinosamente da un momento all’altro (sotto gli occhi non finto increduli degli astanti).

Quando Alessandro è arrivato, con il suo solito zaino da escursionista organizzato, ciabattine da scoglio, magliette tecniche traspiranti, kit di sopravvivenza con frutta secca, borraccia filtrante e perfino una bustina di polvere isotonica, io avevo già le mani indolenzite. Scarpe da ginnastica, maglietta di cotone troppo calda, zero provviste. Lo sguardo che mi ha lanciato è stato un mix tra tenerezza e “sei sempre il solito”.
Abbiamo varato il kayak con la cautela di due apprendisti monaci tibetani. L’ingresso in acqua al Lido di Bodio è traditore: pietre coperte da una pellicola viscida come sapone. Ma appena le nostre pagaie hanno iniziato a tracciare solchi regolari sul lago, qualcosa si è allineato. Il ritmo. Il respiro. La memoria del corpo.

Abbiamo scelto di circumnavigare il lago in senso orario, per sfruttare meglio la luce. All’inizio, direzione Azzate e Capolago, dove la vegetazione è più fitta, la riva più sfuggente, l’atmosfera più africana. E infatti, dopo pochi minuti, immersi nei suoni degli uccelli acquatici, nel fruscio delle canne e nel riflesso verdastro dell’acqua, Alessandro ha detto: “Siamo nel delta dell’Okavango.” L’ha detto serio. Come se avesse riconosciuto una geografia dell’anima, un’eco di esperienze remote. E in effetti, lì dentro, non si sentiva nulla di umano: niente motori, niente voci, niente tagliaerba che stride. Solo il battito d’ali degli aironi, il guizzo delle carpe enormi che ci scappavano davanti, lo sciabordio dell’acqua che sembrava avvolgerci in una culla.

Abbiamo imparato presto a non avvicinarci troppo ai canneti, dove zanzare grandi come droni da combattimento aspettavano immobili come predatori. Ma bastava allontanarsi di qualche metro per ritrovare la calma. E in quella calma abbiamo scoperto una quantità impressionante di vita: praterie di cigni immobili come santoni, cormorani con le ali aperte a seccarsi, aironi rossi e cenerini, e branchi di pesci che si muovevano sotto di noi come in un sogno liquido.

A un certo punto siamo arrivati a una radura d’acqua dove enormi carpe si agitavano tra le alghe basse. Erano così grandi che per un attimo abbiamo pensato a un animale diverso, a qualcosa di preistorico. Ci siamo fermati a guardarli, in silenzio, come si fa davanti a un’opera d’arte. La scena era così fuori dal tempo che abbiamo smesso di parlare. E abbiamo visto anche le tartarughe in apnea.
Poi, dopo i primi riflessi delle case di Azzate, ci siamo imbattuti nei capanni galleggianti. Piccole zattere mimetizzate, ancorate con bidoni vuoti, come rifugi di eremiti moderni. Tutti deserti, almeno oggi. Ma pieni di mistero. Uno sembrava sospeso a mezz’aria, come una baracca del delta del Mekong trapiantata qui, tra Varese e il Campo dei Fiori.

Al porticciolo di Azzate ci siamo fermati. Il sole cominciava a scaldare sul serio e l’odore di grigliate ci ha ricordato che, sì, era il primo maggio. Abbiamo visto famiglie che si godevano la festa, bambini scalzi, uomini che cercavano di accendere il barbecue con tecniche da alchimisti medievali. Poi siamo ripartiti verso Capolago, passando davanti a una piattaforma per pescatori e fotografi naturalisti. Loro, fermi, con binocoli e zoom. Noi, mobili, leggeri, invisibili: la fauna ci accettava come parte del paesaggio.

Superato Capolago, il lago si è fatto più largo e più chiassoso. Le barche a remi da canottaggio si allenavano a ritmo serrato, accompagnate da motoscafi di supporto con allenatori che gridavano istruzioni via megafono. È stato allora, all’altezza del Lido della Schiranna, che abbiamo assistito a una delle scene più teatrali della giornata: il corteggiamento di un giovane cigno maschio, impettito e determinato, che inseguiva la sua prescelta con una coreografia degna di un’opera lirica.

Le piume del collo alzate come una cresta da guerriero, le ali leggermente spiegate, lo sguardo fisso su di lei, avanzava con lentezza studiata, fendendo l’acqua come un catamarano aristocratico. Lei, invece, sembrava del tutto disinteressata: voltava il becco, si lisciava il piumaggio, guardava altrove. Ma non scappava. Sembrava giocare. Quando lui si è avvicinato troppo, lei si è allontanata. Lui la inseguiva, deciso. Lei, d’un tratto, ha accelerato, ha preso slancio e con un colpo d’ali maestoso si è sollevata in volo. Lui è rimasto lì, a galleggiare, con le piume spettinate e il cuore, forse, spezzato. Noi ci siamo scambiati un sorriso, colpiti da quella parabola amorosa in miniatura. Del desiderio. E del mistero per cui, a volte, non basta volere qualcosa perché si avvicini.

Ripartiti, siamo passati davanti alla MV Agusta, che, vista dal lago, sembra un villaggio in miniatura. Intanto sopra di noi il cielo aveva iniziato a riempirsi. I piccoli bimotori del volo a vela cominciavano a trainare gli alianti verso l’alto, in direzione del Campo dei Fiori. Era mezzogiorno, l’aria calda cominciava a salire e le condizioni erano ideali per volare. Ogni tre, quattro minuti ne vedevamo uno nuovo partire. Sembravano gabbiani meccanici, eleganti e silenziosi, decollare in virate larghe sopra le nostre teste.

Ne abbiamo avvistati anche di un tipo per noi nuovo: piccoli alianti monoposto con un’elica posteriore che sbucava come una coda tra i sedili, capaci di decollare da soli grazie a un minuscolo motore elettrico. Sembravano creature ibride, a metà tra un ultraleggero e una libellula. Li guardavamo col naso all’insù, pagaie ferme, bocche aperte. La sinfonia della natura era stata interrotta, sì, ma per lasciare spazio a una danza aerea altrettanto affascinante, fatta di traiettorie invisibili, di gravità sfidata con garbo.

In una zona apparentemente deserta, ci siamo avvicinati a una villa elegante. Nessuno in vista. Una panchina. Silenzio. Ci siamo fermati. Abbiamo mangiato (cioè, lui ha mangiato: io ho mendicato una banana, due New Yorkers e un sorso d’acqua). Poi è arrivata la famiglia: Mercedes argento, mamma, papà, due figlie da pubblicità di yogurt. Ci hanno ignorato con eleganza. E altrettanto ha fatto il loro Golden Retriever. Abbiamo trattenuto il fiato, non sapendo cosa avremmo fatto in caso contrario.

Il ritorno è stato più silenzioso. Forse per la stanchezza, forse perché i rumori del mondo erano tornati. Auto e moto rombanti sulla statale, aerei di Malpensa, animali in vista pochi, tutti in siesta. Ma anche case bellissime, immerse nel verde, e qualche angolo meno poetico, dove cartelli minacciosi invitavano a “mantenere la distanza dalla riva”. Quale? Un linguaggio non da lago.
L’ultimo tratto ci ha portati a Cazzago Brabbia. Il bar sul porto era in festa: musica, ombrelloni, gente che si spellava le spalle al primo sole. Finalmente un caffè. Finalmente, per me, una bottiglietta d’acqua tutta mia. Poi, di nuovo in acqua, per il tratto finale verso Bodio. Falchi pellegrini come ultimo saluto di una natura ostinata a resistere.

Quando siamo sbarcati, esausti ma pieni di gratitudine, ho capito una cosa. Questo lago è un concentrato di biodiversità, silenzio e poesia. Un luogo dove il tempo cambia consistenza, dove l’ordinario si trasfigura. E dove, se hai fortuna, ti accorgi che il delta dell’Okavango può iniziare anche a pochi passi da casa tua.

“La vita fugge, non cercare dunque più di quanto ti offre la gioia del momento e affrettati a goderla”, Stendhal.

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Pubblicato il 03 Maggio 2025
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