Da hacker liceale a miliardario della cyber security. La storia di Andrea
Marco Astuti, ex docente di Informatica all’Università dell’Insubria, racconta la parabola del suo studente Andrea Carcano che ha venduto la startup, fondata insieme a Moreno Carullo, a Mitsubishi per un miliardo di dollari
Dall’aula universitaria di Varese alle sale riunioni della Silicon Valley. È la parabola di Andrea Carcano, varesino di 40 anni, che ha appena venduto la sua startup di cyber security, fondata con il collega Moreno Carullo, al colosso giapponese Mitsubishi per la cifra record di un miliardo di dollari.
A raccontare i primi passi di questa avventura è Marco Astuti (foto sopra), ex docente di Informatica all’Università dell’Insubria e mentore di Andrea sin dai tempi della laurea. Nell’intervista ripercorre il percorso di quello che fu uno studente curioso e brillante, diventato imprenditore capace di conquistare la fiducia degli investitori americani senza mai recidere le proprie radici italiane.
Professore, quando ha incontrato per la prima volta Andrea Carcano?
«Lo incrociai circa vent’anni fa, quando era uno studente di Informatica all’Insubria. Fece con me gli esami fondamentali, “Sistemi di elaborazione dati”, e poi i corsi complementari che tenevo: “Innovazione tecnologica” ed “Economia digitale”. Lì nacque il suo interesse per il modello della Silicon Valley, che spiegavo a lezione come paradigma per trasformare un’idea in impresa. Andrea ne rimase affascinato e ne parlavamo spesso».
Che studente era?
«Era curioso, determinato e già molto focalizzato. Uno di quelli che ti fanno domande mai banali. A volte cercava di metterti in difficoltà, ma era segno d’intelligenza e di grande attenzione. Per la tesi, che non fece con me, scelse subito la cyber security: era un tema che lo appassionava già da adolescente, quando sperimentava da hacker amatoriale. Ebbe l’intuizione che dietro un passatempo giovanile ci fosse un mercato destinato a esplodere. All’epoca era ancora ridotto, i sistemi erano meno aperti e globalizzati, ma lui aveva visto lungo».
Dopo la laurea come proseguì?
«Fece il dottorato, poi entrò in Eni. Lì trascorse tre anni cruciali, occupandosi della protezione dei grandi sistemi. Fu un banco di prova importante: mise a confronto le sue idee con la realtà di un colosso ed ebbe l’opportunità di fare molto networking. Ma presto capì che per sviluppare davvero la sua visione serviva un ecosistema diverso. Decise allora di lasciare e puntare tutto sulla sua startup. Una scelta difficile, fatta di sacrifici e di grande coraggio».
Lei ha avuto un ruolo di mentore. Che consigli gli diede?
«Gli suggerii il modello della “dual company”: ricerca e sviluppo in Italia, dove ci sono le menti, e sviluppo commerciale in Silicon Valley, dove ci sono capitali e condizioni favorevoli. Andrea è molto intelligente, sapeva muoversi bene. Io gli aprii qualche contatto nel settore, ma la vera differenza l’ha fatta lui: ha trovato da solo i finanziatori americani, riuscendo a completare quattro o cinque round di raccolta capitali».
Sarebbe stato possibile lo stesso risultato restando solo in Italia?
«Difficile. Oggi forse un po’ meno, ma ancora complicato. Andrea ha seguito il modello Silicon Valley con rigore, senza però recidere le radici italiane. L’exit con la vendita della maggioranza a Mitsubishi ne è la prova. Per noi italiani e nel campo della cyber security si tratta di una cifra enorme, anche se in Silicon Valley non è raro vedere operazioni molto più grandi».
Lei conosce bene la Silicon Valley. Lì ci sono molti italiani di sucesso, che cosa li contraddistingue?
«La prima volta ci sono andato nel 1979 e ci sono ritornato altre quaranta volte. Lì gli italiani sono amati per la loro empatia. Non è un dettaglio: aiuta a fare rete vera, non solo tecnica. Gli italiani sanno essere creativi anche nell’approccio umano, ed è una qualità che piace agli investitori. Certo, gli americani guardano soprattutto i numeri, ma la capacità di instaurare relazioni conta. È un valore che spesso ci rende competitivi rispetto ad altre culture. I cinesi per esempio, sono molto bravi tecnicamente ma non hanno quella capacità. L’empatia non si compra».
Lei stesso è stato tra i primi a portare imprenditori italiani nella Silicon Valley. Ha ancora senso chiamarla così, quando di “silicon” c’è poco? Non sarebbe meglio chiamarla “App Valley” o “AI Valley”?
«Oggi è un modello maturo, forse meno brioso rispetto agli inizi. Ci sono altre aree nel mondo che offrono stimoli simili, dalla Cina al Giappone. Ma lo spirito pionieristico, quello che trasformava il fallimento in medaglia, resta ancora lì. È stato uno degli elementi decisivi per la sua unicità».
Andrea non è l’unico suo studente di talento. Come si riconosce una mente brillante?
«Non ho mai fatto scouting mirato, ma capita che durante un esame ti accorgi subito di avere davanti qualcuno fuori dal comune. Lo vedi dalle domande, dall’interesse. Però dal talento al successo c’è un passo enorme. Servono almeno tre cose: genio, relazioni e – soprattutto – fortuna. Devi trovarti al momento giusto, nel posto giusto e con le persone giuste. Andrea ha avuto tutte e tre queste condizioni».
Insomma, la fortuna aiuta gli audaci?
«Aiuta chi sa riconoscerla».
Da Varese alla Silicon Valley: Andrea Carcano vende Nozomi a Mitsubishi per un miliardo
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