“La legge è tua, il figlio è mio”. La memoria ferita degli emigranti italiani in Svizzera
Renato Pugina porta per la prima volta in Italia il suo documentario sugli anni in cui i figli degli immigrati erano clandestini in Svizzera. “È una ferita collettiva che ancora chiede di essere riconosciuta». L'appuntamento è a Materia mercoledì 29 ottobre (ore 21)
Mercoledì 29 ottobre con inizio alle ore 21, nello spazio libero di Materia a Castronno (Varese), il regista Renato Pugina presenta per la prima volta in Italia il suo documentario “La legge è tua, il figlio è mio”, prodotto dalla Radiotelevisione svizzera. L’opera racconta una pagina dolorosa dell’emigrazione italiana in Svizzera: tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Settanta, i figli dei lavoratori stagionali non avevano diritto di residenza. Il loro permesso permetteva agli adulti di lavorare, ma non di tenere con sé la famiglia. Molti bambini vissero quindi nascosti o affidati ad altri, vittime di una legge che negava l’infanzia.
Pugina è nato Varese e ha realizzato oltre cinquanta documentari per la RSI (Radiotelevisione svizzzera) ed è cofondatore di Filmstudio 90. Il suo cinema unisce ricerca d’archivio e testimonianza diretta, dando voce a chi la storia ha spesso ignorato.
Pugina, com’è nata l’idea di questo documentario?
«In Svizzera la tematica è molto sentita. Quelle persone vivono ancora lì: italiani, portoghesi, greci, turchi. Gli italiani furono i più numerosi, ma anche altre comunità subirono gli effetti di quella legge che impediva il ricongiungimento familiare. È una storia che riguarda la Svizzera, ma parla a tutta l’Europa. Quella di Materia è la prima presentazione che faccio in Italia. Ci tengo molto, perché ogni volta che l’ho presentato in Svizzera la partecipazione era enorme. Dopo le proiezioni la gente restava a lungo a discutere. Sono stati proprio gli italiani in Svizzera a chiedermi di portarlo anche in Italia, dove invece il tema è meno conosciuto».
Che impatto emotivo ha riscontrato nel pubblico svizzero?
«Fortissimo. In Svizzera la risonanza è stata grande, in Italia molto meno, eppure il tema ci riguarda direttamente. Ricordo che a Soletta (comune svizzero, del Canton Soletta ndr) la sala era piena. Abbiamo dovuto replicare perché molti non erano riusciti a entrare. Due serate intensissime, con tanta commozione. Le immagini d’archivio, i racconti, gli oggetti quotidiani rivelano il dolore di un’esclusione ancora viva. È una ferita che non si rimargina, ma parlarne aiuta a guarire. Ora sono curioso di vedere come reagirà il pubblico italiano.
In Svizzera oggi c’è consapevolezza di quella pagina di storia?
«Sì, sta emergendo. Oggi siamo alla terza o quarta generazione di immigrati. Molti figli e nipoti degli stagionali hanno ruoli di responsabilità, anche nei media e nelle università. Alcuni studiosi, di origine italiana, stanno approfondendo la questione non solo come testimonianza ma come ricerca storica. A Zurigo, un’associazione chiede scuse ufficiali e un risarcimento simbolico alla Confederazione. È un dibattito vivo, che coinvolge anche il piano politico».
In Italia invece è rimasto un tema poco raccontato. Ha avuto difficoltà a trovare il materiale per il documentario?
«In Svizzera c’è molto materiale, anche negli archivi della RSI: servizi in bianco e nero, filmati degli anni Sessanta. Ho dovuto fare una grande selezione. Ma è una parte della nostra storia che in Italia manca ancora di una narrazione condivisa».
Raccogliere le testimonianze dirette è stato difficile? Quanto tempo ha impiegato per completarlo?
«Sì, serviva fiducia. Le persone si aprono solo se sentono onestà di intenti. Molti non hanno voluto parlare: troppo doloroso. Anche per chi ha accettato, è stato un passo difficile. Il documentarista deve costruire una relazione vera, non solo registrare. L’ho completato in circa due anni. Mi occupo di immigrazione da sempre. Di solito tutto nasce da una notizia che ti colpisce e da lì inizi a scavare, trovi materiale, testimonianze, storie che chiedono di essere raccontate».
E le seconde generazioni quanto hanno pagato in temini sociali quel distacco?
«Hanno pagato il prezzo del dolore dei genitori. Alcuni non ce l’hanno fatta: a Zurigo, negli anni Ottanta, molti giovani italiani finirono nella piazza della droga di Platzspitz. È stata una tragedia silenziosa, figlia di ferite mai elaborate».
Com’è cambiato oggi la narrazione dell’immigrazione italiana in Svizzera?
«È molto diversa. Oggi l’italianità è di moda: l’aperitivo, lo “spritz”, la socialità serale, persino la cucina italiana sono diventati parte della cultura svizzera. Gli italiani hanno trasformato abitudini e città, portando calore e convivialità. Hanno diffuso cultura, scrittura, letteratura. Un esempio? Un autore di origine avellinese, nel film, racconta come insegna ai bambini svizzeri a fare la pasta: segno di un’integrazione piena e positiva».
Qual è il messaggio che vuole lasciare con questo documentario? C
«C’è l’aspetto storico che è sicuramente importante, ma per me è soprattutto quello umano che conta. Parole come “trauma”, “vergogna”, “distacco”, “sofferenza” tornano spesso nei racconti. Sono ferite psichiche che hanno segnato un’intera generazione. Raccontarle significa restituire dignità a quelle vite e, forse, iniziare finalmente a guarire».
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