Gianni Spartà, 50 anni da professionista: «Testimone e narratore, con gratitudine»

Il più giovane della sua sessione d’esame, la scuola della Prealpina, le notti di cronaca, le battaglie giudiziarie e industriali, fino ai libri su Borghi, Zamberletti e Furia: «Non mi sono mai sentito depositario della verità»

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Cinquant’anni di iscrizione all’Albo dei giornalisti professionisti non sono solo una ricorrenza. Sono una traiettoria di cronaca, scelte, maestri e notti passate a inseguire notizie con la prima pagina che incombeva e i gettoni della cabina telefonica che tintillavano nelle tasche. Gianni Spartà li attraversa da testimone e narratore, con un sentimento che torna spesso nelle sue parole: la gratitudine. Per una città, Varese, che sembra “tranquilla quasi svizzera” e invece contiene storia, economia, politica e giudiziaria; e per un giornale, la Prealpina, che gli ha insegnato l’attacco, la precisione, la responsabilità. Da quella scuola fino ai libri, da Mister Ignis su Giovanni Borghi a La luna sulle ali su Giuseppe Zamberletti, fino a Pensieri Positivi su Salvatore Furia. Spartà ha trasformato la memoria in racconto, senza mai sentirsi «depositario della verità».

Cinquant’anni di iscrizione all’Albo dei professionisti, che sensazione le dà?
«Un peso esistenziale, ma anche un peso specifico pieno di gratitudine. Gratitudine per la città che mi ha aperto le porte di uno dei simboli della città: la Prealpina. E mi ha insegnato il mestiere».

Lei a 23 anni era già giornalista professionista?
«Sì: il più giovane della mia sessione. Ero stato assunto nel ’73. In quel periodo avevo anche fatto l’esame da procuratore. Il dramma, cosa faccio?. Mia mamma mi diceva: “Ma figlio, con tutti i soldi che abbiamo speso…”. Io prendevo il presalario dell’università, 500.000 lire in due tranche».

Com’era la vita in redazione?
«Tornavo dagli esami alla Statale di Milano e alle 4 mi aspettavano il Cerbero Vedani e il Cerberissimo Morgione. “Ma scusa, sei in ritardo”. Si cominciava alle 4, si finiva alle 8, si andava a mangiare, si tornava alle 10.30 e si finiva alle 2. Poi di notte, passando per la polizia o i carabinieri, succedeva di tutto. Vedani: “Fermo le macchine, torna indietro appena sai qualcosa che rifacciamo la prima pagina”».

Che cosa le hanno insegnato i maestri?
 «A scuola mi scrivevano “sciatteria nella forma” e mi davano cinque. Poi in redazione era l’attacco. Se era moscio, ti buttavano via il pezzo a mezzanotte. Dovevano esserci le cinque “w” e l’affascinazione del lettore. Se no il lettore lo perdi. Sono ancora schiavo di quella lezione. L’attacco deve accendere una fiamma».

C’è un capitolo che l’ha formata definitivamente?
«Il Calzaturificio di Varese. Due anni di assemblee, impugnazioni, tribunali. Pier Fausto Vedani mi disse: “Siccome sei laureato in legge…”. Avevo meno di trent’anni e scrissi almeno 200 articoli. Mi ha insegnato il processo civile, i soci, i padroni, la sostanza del potere».

E la cronaca giudiziaria più dura?
«Ho avuto una parentesi importante con “Ammazzare stanca”. Antonio Zagari mi cercava e voleva parlare solo con me. Nel ’92 avevo 39 anni. Con questo libro voleva far capire che non lo faceva per un suo profitto o per avere sconti di pena. Lui sapeva che la sua carriera criminale era finita e non voleva apparire ipocrita. Questo incontro mi ha fatto capire che il grano cresce assieme alla zizzania e che, come diceva lo stesso Zagari, “tranne che a Dio è concesso di non dare una chance anche all’ultimo degli assassini”».

Oggi cosa la preoccupa del mestiere di giornalista?

«La dignità del lavoro e la lingua. L’ho detto anche all’Ordine: la battaglia non deve venire meno. Ho citato Giulia Milani, una ragazza che ha scritto una tesi “da 110 e lode” sui sequestri di persona, in italiano. E poi il cortocircuito tra processo pubblico e “privacy”. Nel dibattimento l’atto è pubblico, ma tra querele temerarie e timori, spesso si abbassano le braccia».

Varese viene raccontata spesso come tranquilla, quasi come la Svizzera. Lei che cosa ha visto?
«In realtà qui “non accade mai nulla” è un mito. Terrorismo rosso e nero, Tangentopoli con 103 arresti, e poi la politica che per anni ha fatto di Varese “l’ombelico” di un pezzo d’Italia. È anche per questo che scrivo: perché su queste rive “è passata la storia”».

Perché, oltre ai giornali, ha scelto le biografie?

«Perché amo questa città come non la amano quelli che ci sono nati e mi è venuta voglia di raccontarne i personaggi migliori. L’ho fatto con Giovanni Borghi, Mister Ignis, che ha ispirato un film della Rai; con Giuseppe Zamberletti in La luna sulle ali, con Salvatore Furia in Pensieri Positivi. Sono storie che non voglio si perdano: noi dobbiamo essere portatori sani di memoria».

Una chiusa, da cronista?
«Non dirò mai che si stava meglio prima. Ma sono lieto di aver fatto parte di una generazione in cui non ricordo un articolo censurato. Ho sbagliato come tutti, ma in buona fede. E non mi sono mai sentito depositario della verità. Nella giudiziaria la “verità del momento” quasi mai è quella che resta».

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Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it

Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.

Pubblicato il 21 Dicembre 2025
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