Non è follia, è strategia: capire Trump per capire il nostro futuro
Dalle élite tradizionali ai nuovi potenti anti-sistema: chi guida davvero il cambiamento americano

Tutto è iniziato da un mio post su LinkedIn, in cui commentavo la decisione della Casa Bianca di impedire a Harvard di accogliere studenti internazionali. Un gesto simbolico, ma devastante, che colpisce al cuore l’idea stessa di America come catalizzatore di talenti globali. Un atto che sembrava assurdo, illogico, quasi autolesionista. Eppure, tra i commenti ricevuti, ce n’è stato uno che mi ha fatto riflettere più di tutti. Quello di Fadi, un mio compagno di studi all’INSEAD di Fontainebleau, di origine libanese.
Fadi è un imprenditore di successo nella Silicon Valley, con un curriculum che passa dal MIT a Oracle, passando per start-up vendute e reinventate. Non certo un operaio del Midwest. Eppure, nel suo commento, ha paragonato la politica dei dazi e delle restrizioni all’immigrazione alla scelta fatta dal calcio italiano nel 1966: limitare gli stranieri per far crescere i talenti nazionali. Una logica di protezione, non esclusione. Una logica che può sembrare ragionevole, se non addirittura necessaria.
Ma Fadi ha fatto anche un’altra affermazione, rivelatrice: “Gli Stati Uniti prendono spesso la parte corta del bastone”, cioè sono sfavoriti e danneggiati. Questa frase, detta da chi vive al centro del potere economico globale, è la chiave per capire ciò che molti non vedono: una parte delle élite americane si sente oggi vittima, non più leader. Da qui inizia il viaggio.
Chi sono le nuove anti-élite élite
Trump non è stato eletto solo da operai bianchi arrabbiati del Midwest. A sostenerlo, nel 2016 e ancor più oggi, è un blocco potente e variegato di nuove élite. Alcuni ne fanno parte da sempre, ma hanno cambiato pelle. Altri sono outsider diventati protagonisti. Insieme formano ciò che potremmo definire l’“anti-élite élite”: persone che, pur occupando posizioni di potere, rifiutano le regole e i valori dell’ordine liberale internazionale su cui si è costruito il dominio americano dal 1945 in poi.
Gli incendiari di sistema: come Peter Thiel, che finanzia candidati populisti con l’obiettivo dichiarato di abbattere le istituzioni che considera inefficaci o corrotte. Vogliono distruggere e rifondare, secondo nuovi codici: forza, efficienza, verità scomode.
I realisti strategici: come Michael Anton o Elbridge Colby. Per loro il mondo è tornato alle logiche di potenza. La diplomazia, i trattati, le organizzazioni multilaterali non servono più. Serve priorità all’interesse nazionale, anche a costo di rompere alleanze storiche.
I libertari della Silicon Valley: investitori e imprenditori come David Sacks o Marc Andreessen. Spingono per la libertà assoluta d’impresa e vedono Trump come uno scudo contro regolazioni ambientali, fiscali, sociali. Più che ideologici, sono iperpragmatici.
Gli industriali reazionari: settori fossili, agroindustria, manifattura tradizionale. Temono la transizione ecologica perché mina i loro modelli di business. Trump è il garante di un mondo che conoscono e controllano.
Una parte delle forze armate e dell’intelligence: affascinata da un ritorno all’ordine, alla disciplina, a un’identità americana forte e compatta contro il caos culturale e geopolitico. General Dove sono finiti gli altri? Le vecchie élite non sono scomparse. Ma sono in crisi.
I diplomatici e i teorici del soft power sono stati emarginati. Continuano a scrivere e parlare, ma non hanno più accesso alle stanze dove si decide. Le idee di dialogo e cooperazione sono viste come ingenue o, peggio, dannose.
Gli economisti globalisti, che per decenni hanno promosso il libero commercio e la delocalizzazione, oggi sono sotto accusa. I dati hanno dato loro ragione (crescita del PIL, inflazione bassa), ma le persone comuni hanno perso lavoro, identità, stabilità. E non li ascoltano più.
I colossi della finanza e della tecnologia sono spaccati: da un lato temono Trump, dall’altro ne beneficiano. Nessuno si espone. Tutti si proteggono.
Le università, i giornali, i centri culturali sono diventati bersagli. Accusati di essere elitari, scollegati dalla realtà. Difendono il pluralismo, ma sembrano parlare solo ai già convinti.
Perché Trump non è un incidente
Trump è la punta dell’iceberg. Non è un pazzo solitario, ma il volto pubblico di un cambiamento più profondo. È la risposta, brutale ma coerente, a tre crisi contemporanee:
Una crisi sociale: milioni di americani, anche benestanti, si sentono sostituibili. La retorica meritocratica ha lasciato solo i più forti. Gli altri cercano protezione.
Una crisi geopolitica: la Cina avanza, la Russia sfida, l’Europa declina. Molti americani pensano che i vecchi alleati siano un peso, non un vantaggio.
Una crisi simbolica: l’identità americana è frammentata. Genere, razza, valori, religione: tutto è diventato campo di battaglia. Trump propone un racconto semplice: “noi contro loro”. Cosa significa per il resto del mondo. Trump non è un’anomalia. È parte di un movimento globale.
In India, Narendra Modi ha costruito una narrazione simile: orgoglio nazionale, ritorno all’identità, polarizzazione culturale. Anche lì, le élite tecnocratiche sono state emarginate in favore di una nuova classe dominante identitaria e religiosa.
In Europa, la Brexit è stata il grido simbolico del ritorno alla sovranità. L’ascesa di Le Pen è la conferma che il populismo non è un’ondata passeggera, ma un nuovo equilibrio.
In Italia, leader come Meloni interpretano la stessa stanchezza verso le mediazioni, le istituzioni multilaterali, l’egemonia “moralista” di Bruxelles. Trump rappresenta non il pericolo, ma il modello. General
Per le imprese e i cittadini, significa dover decifrare nuove mappe: l’interesse nazionale torna prima delle regole, la diplomazia cede al negoziato muscolare, il mercato globale non è più una certezza ma un campo minato.
La chiave per noi tutti
Trump non è un folle con il dito sul bottone. È la sintesi di una strategia radicale: rompere le regole vecchie per creare un ordine nuovo, basato sul potere, non sul consenso. Chi lo sostiene sa cosa fa. Anche se a volte finge il contrario. Per capire il presente, e prepararsi al futuro, bisogna smettere di pensare in termini di razionalità economica pura. Bisogna leggere le emozioni collettive, i risentimenti, le paure. E chiedersi: quali narrazioni stiamo offrendo, noi, come alternativa? La politica non è più solo amministrazione. È identità, mito, protezione. E Trump, nel bene o nel male, ha capito tutto questo prima degli altri. Capirlo non è accettarlo. Ma è l’unico modo per non subirlo.
“Dal momento che l’amore e la paura possono difficilmente coesistere, se dobbiamo scegliere fra uno dei due, è molto più sicuro essere temuti che amati”, Niccolò Machiavelli.
Bibliografia: – “Da zero a uno”, Peter Thiel e Blake Masters – The Stakes: America at the Point of No Return, Michael Anton – The Strategy of Denial, Elbridge Colby.
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Interessantissimo articolo che condivido in molte parti. Trovo altamente riduttivo e supercificale definire Trump come “folle” o “inaffidabile”. La sua è una strategia ben nota….scaglia il sasso in mezzo allo stagno e sta a vedere le onde che inevitabilmente si alzano. Ridurre il tutto alla valutazione psicologica del personaggio non solo rischia di mistificare la realtà ma non ci aiuta a capire come affrontare le prossime mosse.