Il processo, e le versioni di un uomo

Alla dichiarazione spontanea in aula stride l’opinione delle figlie dell’imputato per l’omicidio della madre: «Non ci fermeremo, lo facciamo per lei»

Nel processo penale l’imputato ha tre strade: o tace, o accetta di sottoporsi a interrogatorio dalle parti, o rende spontanee dichiarazioni: vuol dire che può affermare ciò che crede – seppur entro i limiti di ciò che gli viene contestato – , e naturalmente può anche non dire la verità.

Quindi venerdì, forse a due udienze dalla sentenza – le discussioni avverranno il 21 dicembre e la decisione della Corte d’Assise di Varese è invece attesa per gennaio – Giuseppe Piccolomo ha parlato. E ha raccontato la sua verità (nella foto, mentre esce dalla “gabbia”).

Lo ha fatto su quello che gli viene contestato, sostenendo la tesi dell’incidente a fronte dell’accusa che lo vede imputato per omicidio volontario ai danni della moglie, Marisa Maldera, nel 2003.

Avarie

Ma lo ha fatto anche presentando la sua vita famigliare, quella del primo matrimonio, come frutto di un’esistenza tutto sommato tranquilla: «Due sberle le ho date a mia moglie solo una volta, un paio d’ anni dopo che eravamo sposati, e niente più» ha detto. Piccolomo ha parlato di sè, oggi, come un uomo sposato che non vuole accollarsi responsabilità (penali) che non gli competono. Di ieri ha tratteggiato il ricordo di un lavoratore che prese una moglie in giovane età, a 17 anni già in gravidanza (ha parlato di «una donna abusata») e che ha di fatto tirato su i numerosi nipoti, senza amai aver alzato un dito sulle figlie.

In aula stamattina c’erano entrambe, Tina e Cinzia, che hanno ascoltato scuotendo il capo più di una volta. All’uscita dalla Corte d’Assise, assieme alle giovani figlie (e nipoti del Piccolomo), però ecco lo sfogo, che ha raccontato di un altro uomo, quello che venne da loro già descritto nelle prime udienze di questo processo, prima dell’estate. Parole che toccarono i giudici popolari, con pianti in aula, ricostruzioni di molestie a luce spenta, nel letto. Un uomo capace di tutto, insomma.

Ricordi riaffiorati di nuovo nell’udienza di oggi, dopo aver ascoltato il padre: «È incredibile come questa persona abbia la capacità di mentire. Non c’è una sola parola di verità nelle frasi che ha pronunciato», hanno detto in coro Tina e Cinzia che non nominano il padre, lo sottintendono.

«Per fortuna non ha mai messo le mani addosso alle nostre figlie. Non è vero che stava da solo con loro, non lo avremmo mai permesso, non dopo quello che è successo. E non corrisponde alla verità neppure la ricostruzione fatta di quella serata in cui nostra madre trovò la morte: la storia del caffè dopo una serata di lavoro, di una sigaretta che innesca l’incendio nell’auto, con la benzina, è una messinscena a cui non crede nessuno. A questo punto ci aspettiamo giustizia. Se non sarà per noi, almeno sarà per il nome di nostra madre».

IL PROCESSO PICCOLOMO

Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it

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Pubblicato il 14 Dicembre 2018
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Commenti

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  1. Avatar
    Scritto da Viacolvento

    Perché negli articoli su taluni processi, come quello Piccolomo, viene chiaramente indicato chi è l’imputato, mentre per altri, come l’incidente di Brissago Valtravaglia, il nome di chi è stato condannato è omesso?

    1. Andrea Camurani
      Scritto da Andrea Camurani

      Buongiorno, viene fatta una valutazione sulla base del profilo della persona. Piccolomo è suo malgrado un personaggio pubblico perché ritenuto responsabile di uno dei più efferati delitti del Varesotto, al centro di numerosi approfondimenti giornalistici e trasmissioni televisive (l’ultima di sole due settimane fa su Rai Tre). Il fatto che un personaggio pubblico – sia pur per meriti “negativi” – venga nuovamente processato è difficile, se non impossibile da trattare senza l’indicazione precisa del nome. Venendo ai fatti di Brissago capirà bene che un un omicidio stradale, per quanto il reato sia grave, se commesso da una persona fuori da un ruolo strettamente pubblico, non necessiti di esporre mediaticamente la persona condannata, conosciuta nella cerchia ristretta delle persone con cui ha a che fare (è un’insegnante), ma non quanto la moglie della vittima, che è consigliere comunale a Luino, e che è stata ampiamente citata anche negli altri articoli di cronaca che riguardavano la sua vicenda. Viene, insomma, attribuito un “peso specifico” (brutta espressione) diverso a seconda di chi sia l’oggetto della cronaca. Nella fattispecie, la decisione di non pubblicare il nome è spettata all’autore dell’articolo. Dal punto di vista strettamente deontologico, infatti, nulla avrebbe vietato di pubblicare per esteso nome e cognome della persona condannata da una sentenza pubblica per definizione, che viene letta in nome del popolo italiano.

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