Michele: l’amico di sempre
Può un incontro fortuito e saltuario trasformarsi nel tempo in qualcosa di più profondo? Sì, può. Se si sa riconoscere il valore dell'altro
Per chi, come lo scrivente, iniziò la sua carriera di insegnante nel Gallaratese intorno agli anni Settanta del secolo scorso vi era un itinerario praticamente obbligato che, partendo dal “Pensionato del giovane emigrante”, ubicato in via Agnelli e gestito da padre Mansueto con polso fermo ma anche con profonda umanità, passava dalle scuole (le mie furono, in ordine di successione, la scuola media di Cardano al Campo, la scuola media di Samarate e il liceo scientifico di Gallarate), giungeva alla mensa delle Acli e si disperdeva infine nei bar del centro per l’immancabile cafferino.
Fu in questo luogo, importante punto di riferimento socio-alimentare per tante persone che vivevano o lavoravano nella zona, che conobbi Michele De Vivo, un giovane magro che si distingueva per il viso angoloso incorniciato da una capigliatura alla paggio e ravvivato da due occhi neri che emanavano uno sguardo ironico, penetrante e pieno di curiosità. Accadde così, oltre quarant’anni fa, che nascesse fra me e questo immigrato molisano, il quale non ha mai avuto un lavoro fisso e ha sempre vissuto di espedienti, un’intesa cementata dall’affinità del carattere, da una ribellione alle ingiustizie sociali e dal comune amore per la cultura come strumento di riscatto e di elevazione dell’uomo.
Don Alberto, che conosceva Michele come frequentatore saltuario e irridente del “Centro della Gioventù”, individuò con intuito sicuro la sua singolare personalità, quando ebbe a definirlo “l’ignorante che sa tutto”. Ma il ritratto di Michele non sarebbe completo se, insieme con un amore autentico per la cultura in tutte le sue manifestazioni, non si citasse, oltre alla sua conoscenza della musica barocca, il suo vivo e competente interesse per l’arte contemporanea, sorretto da un senso estetico raffinato, che lo portò non solo ad interessarsi di correnti come la “Transavanguardia” e a frequentare artisti e critici dell’area milanese e napoletana che erano qualificati esponenti di questa corrente, ma anche a praticare, con risultati tutt’altro che disprezzabili, un’arte minore, ma quanto mai significativa, come quella del collage.
Un altro rilevante aspetto del suo percorso fu l’attività socio-assistenziale svolta da Michele nell’àmbito della fondazione “Exodus” di Gallarate, impegno che gli valse il riconoscimento e la simpatia dello stesso don Mazzi. La garbata mimesi ironica di certi comportamenti, unita ad una superiore bontà e ad un’eccezionale disponibilità nei confronti delle persone più deboli ed emarginate, fanno di Michele, per usare la pregnante espressione ebraica, “un giusto nascosto”. Sennonché Michele da parecchi anni aveva abbracciato con piena cognizione di causa la religione islamica, poiché – come sta scritto nel Corano e come egli stesso soleva ripetermi – “Dio guida chi vuole alla Sua luce”.
E a me, che non sempre sono stato all’altezza di una delle poche persone da me conosciute che abbiano meritato la definizione di “grande anima”, resta il rimpianto di non aver sempre e pienamente corrisposto, per le vicissitudini della vita e per la superficialità che a volte ci rende ciechi e sordi, alle costanti e importanti testimonianze della sua fraterna amicizia. Pertanto, se dovessi dire che cosa Michele mi ha insegnato, questo soltanto risponderei: che l’unico modo per avere un amico è essere un amico.
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