Bob Morse, un applauso lungo quarant’anni

Intervista al campionissimo della Grande Ignis, che ha ricevuto dal sindaco Fontana la cittadinanza onoraria di Varese. "Amo questi luoghi e la vostra gente. Anche per questo la mia tesi è stata sui racconti di Piero Chiara". E svela: "La vittoria più bella? Anversa '75 con il Real, la partita di Sergio Rizzi"

«Bobby-Bobby-Bobby». E’ un urlo vecchio di quasi quarant’anni quello che squarcia di colpo le tranquille poltrone del Teatro Apollonio di piazza Repubblica, scosso da una manifestazione d’affetto davvero unica. Dalla scalinata sta scendendo un uomo che ha fatto la storia sportiva e non solo della nostra città, e dall’alto dei suoi due metri abbondanti sta andando a riconquistarsi la sua platea. "Bobby" è Bob Morse, l’uomo dei canestri a raffica, delle coppe europee a grappoli, della "valanga gialla" targata Ignis (e poi mutata nel bianconero della MobilGirgi) che per dieci anni ha dominato il mondo del basket. Sul palco dell’Apollonio e davanti a diverse centinaia di persone, Morse ha ricevuto dal sindaco Attilio Fontana la cittadinanza onoraria di Varese e per l’occasione ha ricevuto l’abbraccio di tanti fans di ieri e di oggi ma pure di tutte quelle persone – giocatori, tecnici, dirigenti, giornalisti e… avversari – che hanno preso parte a quella fantastica e infinita avventura sportiva.

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Morse (foto G. Cottini), che oggi insegna italiano in un college dell’Indiana si è commosso più volte, in perfetto italiano ha preso la parola in diverse occasioni per ringraziare e si è concesso volentieri ai taccuini per raccontare parte del suo passato e del suo presente, dimostrando se ce ne fosse bisogno quale sia ancora il suo legame con Varese e le sue zone. «Pensate che ieri (domenica), accompagnato da Massimo Lucarelli, sono voluto tornare sul Lago Maggiore dalle parti di Caldé, un dei tanti luoghi splendidi della provincia. E credetemi, non ho resistito: ho voluto fare il bagno, guardando verso il Monte Rosa: fantastico».

Lei arrivò qui giovanissimo nel ’72: quale fu il suo primo impatto con la nostra città?

«Mi piacque fin da subito. Vedete, io arrivavo da una zona di campagna in Pennsylvania, ero abituato a vedere e vivere la natura. Quando ho messo piede a Varese ho visto subito che potevo ritrovare un ambiente simile; quando mi hanno portato sul lago, mi hanno mostrato le montagne ho capito che questo era il posto per me».

E con i varesini che rapporto si è creato?

«Buonissimo. Perché la gente che riempiva il palasport di Masnago sapeva essere bollente quando si trattava di fare il tifo. Poi però, fuori da là, ha dimostrato di essere molto attenta, protettiva, rispettosa. La privacy mia e della mia famiglia non è mai stata violata; anche per questo ho deciso di far nascere qui le mie figlie, per saldare ancora di più un legame con voi. E poi ora, dopo questa cerimonia, si è chiuso il cerchio perché sono ufficialmente vostro concittadino».

Ha mai pensato di tornare qui a vivere?

«Beh, sono tornato una prima volta nel ’75, dopo che era scaduto il mio primo contratto e che pensavo di far ritorno definitivo in America. Poi, finito il mio secondo periodo varesino sono venuto diverse altre volte ospite degli amici e ho anche portato una squadra per un’amichevole con la Pallacanestro Varese a inizio anni Novanta. Però tornare in pianta stabile è difficile, sarebbe una scelta professionale radicale ma per il momento mi piace quello che faccio e penso di continuare su questa strada».

Lei insegna italiano, una lingua che ha imparato alla perfezione durante i suoi anni nel nostro Paese.

«Sì. Diciamo che ho svolto una formazione un po’ più originale rispetto a quella dei miei colleghi che si sono formati a scuola. Intendiamoci, io alcuni anni fa ho preso un master nella vostra lingua ma gran parte di quello che so l’ho imparato in spogliatoio. Del resto alcuni miei compagni volevano imparare l’inglese, io l’italiano: la Ignis è stata una bella palestra culturale, non solo sportiva. E vi dirò di più: avevo imparato anche il dialetto perché a Ghirla, dove abitavo, era frequentissimo sentirlo. Ora lo capisco, ma faccio fatica a parlarlo, anche se frasi semplici come "tel’chi" mi vengono ancora bene».

A proposito di studi, lei ha approfondito anche quello di Piero Chiara.

«Esatto: per la tesi in italiano ho tradotto alcuni racconti tratti da "Le corna del diavolo". Mi hanno aiutato a capire meglio le storie e le culture di Varese e della sua provincia, amo molto Chiara per questo e sto cercando di procurarmi il dvd de "La stanza del Vescovo". Lo farò vedere e studiare ai miei alunni, per coniugare la conoscenza dell’italiano e anche delle nostre terre».

Andiamo sul basket. Nelle sue tante partite, ne avrà scelta una come vittoria più bella e una quale sconfitta più bruciante.

«Sì, io credo che l’impresa maggiore fu la finale di Coppa Campioni 1975. Giocavamo ad Anversa contro il Real Madrid, partivamo sfavoriti ed eravamo senza l’infortunato Meneghin. Ma giocammo la partita perfetta: io, Bisson e il povero Rizzi eravamo inarrestabili: Sergio poi stupì tutti e vincemmo anche con un buon margine. Al contrario mi brucia molto la sconfitta con il Maccabi di un solo punto: quella volta eravamo favoriti noi che a Tel Aviv in precedenza avevamo vinto nettamente. Ma la finale andò male».

Invece, è possibile trovare un "canestro più bello"?

«Diciamo che ricordo con piacere alcuni episodi legati a miei canestri. Uno su tutti, nel ’79 a Pesaro con Dodo Rusconi allenatore. Avevo una caviglia malandata, concordai con Dodo di giocare al massimo 20′ e lui mi lasciò fuori per tutto il primo tempo. Così, nell’intervallo, andai da solo a scaldarmi davanti a una tifoseria scalmanata e feroce. Cominciai a segnare da vicino, poi mi allontanai e misi a segno 25-30 tiri di fila. All’inizio gli spettatori mi fischiarono, poi si stupirono e spaventarono: alla fine sbagliai un tiro e il vecchio "hangar" scoppiò in un applauso. Ma nel secondo tempo li castigai con 20 punti: il pullman dell’Emerson se ne andò sotto una pioggia di pugni e sassi».

Infine, ci confessi un’ultima cosa. Nei suoi luoghi di vita attuali, c’è qualcosa – una foto, una maglia, un trofeo – che le ricorda la sua lunga esperienza varesina?

«Sì, un poster della mia prima Ignis, quella del 1972-73 con Nikolic in panchina. Io sono in piedi, nella fila dietro: accanto ho "Lucky" (Lucarelli ndr) e Meneghin, due delle persone cui sono più legato. Un bel ricordo, perché fu la mia prima stagione, quella in cui prima di vincere tutto dovetti convincere il pubblico di poter sostituire un mito come Raga. Alla prima partita a Masnago sentivo questo peso e nel primo tempo feci qualcosa come 0 su 6. La gente iniziò a sbuffare: nella ripresa non sbagliai più un tiro e da allora la mia favola è continuata fino a oggi, per 37 anni».

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Pubblicato il 26 Maggio 2009
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