“…e ridacci il nostro lavoro quotidiano…”
"Veglia per il lavoro" presso la ditta Cavelli in zona industriale, presenti vicario episcopale, prevosto, parroci, e oltre duecento persone, per implorare la fine della crisi e ritrovare insieme le ragioni della speranza
Oltre duecento persone hanno partecipato giovedì sera alla "veglia per il lavoro" organizzata presos la ditta Cavelli Mario, azienda storica del settore tessile che ha sede da alcuni anni in moderni capannoni in zona industriale. È stata proprio la zona industriale di Sacconago, volutamente, il fulcro di questa serata di preghiera nella quale, neanche troppo indirettamente, si impetrava la fine della crisi come un tempo si faceva per la pestilenza o la guerra. A ogni epoca i suoi mali. Ma poichè quelli economici sottendono quelli morali, la Chiesa era lì, a ricordare discretamente che ha duemila anni di esperienza nel gestire le crisi. A Dio piacendo.
Celebrava il vicario episcopale Angelo Brizzolari, presenti il prevosto monsignor Franco Agnesi e vari parroci cittadini, in testa don Giulio Bernardoni per il rione, fra preghiere dedicate a chi è senza lavoro e stralci di interessanti passaggi dall’enciclica Caritas in veritate, dove si analizzavano le tendenzze prevalenti dell’economia verso il profitto ad ogni costo, le delocalizzazioni, lo sfruttamento selvaggio dei lavoratori. Appropriata lettura anche quela dalla Genesi su Giuseppe, che venduto schiavo dai fratelli gelosi era diventato potente ministro del faraone d’Egitto. E presentendo una grave crisi attraverso i sogni del suo signore, aveva fatto scorta di grano: salvando la sua gente e alla fine, senza rancore, anche i fedifraghi fratelli, ridotti a bussare, alla fame, alla sua porta. Durante la serata è stato letto anche uno stralcio dal messaggio del cardinale Tettamanzi sulla crisi. Parole di grande buonsenso sulla necessità di un lavoro "non qualsiasi", ma adatto all’umanità di ognuno, alla sua dignità, agli impegni familiari; sulla difficoltà di parlare di speranza a giovani cui viene tolta giorno dopo giorno dall’impossibilità di metter su famiglia, di fare progetti, di mettere a frutto sudati studi e qualifiche; sul bisogno di "legami nuovi", a partire da famiglia, territorio, ambienti di lavoro.
«Rischiamo la crisi umana, oltre a quella economica» la diagnosi di monsignor Brizzolari, alla luce di una società «rissosa, rassegnata e scandalistica» e del mestissimo chiudersi di un decennio partito nel segno del Giubileo, dolorosamente contrastato con gli anni Sessanta del boom. Numeri impietosi quelle delle ricerche che il vicario episcopale snocciola come un sindacalista dell’anima assetata di speranza: quattro su cinque temono per il lavoro, oltre la metà non crede più che valga la pena di progettare per il futuro, quasi la metà è in ritardo su bollette e pagamenti, i due terzi delle famiglie hanno tagliato persino i consumi alimentari. Eppure c’è un’Italia silenziosa che crece, come i 400 volontari che hanno aiutato la Diocesi ambrosiana a mettere in campo considerevoli risorse per il Fondo famiglia e lavoro lanciato a fine 2008.
Importanti le testimonianze, poi: quelle di Carlo Conti, prima operaio, poi autonomo, oggi senza più la ditta, chiusa per la delocalizzazione del fornitore principale; quella di Patrizia Priore, precaria; di Atty Affo, togolese, traduttore e consulente per una grossa azienda milanese; infine del padrone di casa Mauro Cavelli, "contadino del tessile" e autore di un forte appello a salvaguardare le attività produttive rifiutando le lusinghe della delocalizzazione dove tutto costa meno – scelta che priva l’Italia dei suoi punti di forza storici: il lavoro, la passione, l’inventiva. «Non è giusto, non può funzionare nè può durare che si produca a due euro in Cina o Vietnam e si rivenda a 150 qui» il suo monito. Dura minga, dura no? Sperèm. Eppur si muove, dirà chiudendo, quasi da monsignore anche lui, il sindaco Gigi Farioli: quindici aree sono state appena assegnate nella zona industriale ad altrettante aziende, anche questo è un segno di speranza. Perchè si vive «non per lavoro, nè per profitto, ma per passione».
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