“La morte è sempre un trauma”
A un anno dalla sua inaugurazione, l'hospice è ritenuto un fiore all'occhiello dell'ospedale. Unanime la riconoscenza verso chi vi lavora. L'esperienza dello psicologo Bellani
Centosessantaquattro persone sono passate in questo corridoio dal febbraio 2010. Centosessantaquattro malati terminali, bisognosi di cure e di sostegno. Ad un anno dalla sua inaugurazione, il reparto di cure palliative – hospice del Circolo a Varese fa un primo bilancio della sua attività. Un giudizio che non può che essere positivo: il personale, medico e infermieristico, si muove tra dolore, sofferenza e disperazione in punta dei piedi, portando conforto e sostegno nei momenti più critici. Chi è passato ha voluto lasciare un segno di gratitudine: un quadro, un plaid da mettere sulle gambe quando si usano le carrozzine, i dolci per i famigliari, i libri, in una sorta di gara di solidarietà.
In media, i pazienti rimangono in reparto 17 giorni e spesso arrivano con scarsa conoscenza del proprio destino: il 22,7% non ha alcuna consapevolezza della malattia, il 18,2% pensa di essere affetto da una malattia diversa, il 9,1% pensa di avere un tumore guaribile e il 13,6% sa di avere il cancro ma non ha la percezione della gravità.
L’arrivo e la permanenza in reparto sono sempre assistiti da uno psicologo, una guida che aiuta a superare il momento di sconforto: « La serenità di un paziente passa attraverso l’azione combinata di cure attive e di cure palliative – spiega lo psicologo del reparto Marco Bellani – medicine che servono a combattere la patologia e farmaci utili a lenire il dolore. Poi interviene il supporto psicologico per arrivare all’accettazione dell’ineluttabilità della vita».
« Il momento più delicato – spiega il dottor Bellani – è quello della scoperta della malattia ma non si deve perdere di vista nemmeno la progressione e l’efficacia della terapia. Ormai è scientificamente provato che l’emotività influenza le difese immuntarie. Il trauma psicologico e la paura sono determinanti nell’andamento della malattia».
Chi ha più bisogno di sostegno psicologico? Il paziente, il parente o chi cura?
«Indubbiamente il personale medico e infermieristico. È sempre al fianco di chi sta male, lo segue, lo sostiene. Ma la separazione è dura da accettare perchè in ogni situazione si intrecciano rapporti personali impossibili da evitare. E la rottura provoca traumi profondi su cui si deve lavorare. C’è bisogno di un momento di riflessione, di condivisione e confronto. È un gruppo giovane, molto determinato e reagisce bene tant’è che sono stati soprannominati "angeli". Ma anche per loro, spesso, si apre l’inferno emotivo».
« Anche i pazienti devono essere accompagnati nella scoperta e nell’accettazione. Le storie delle loro vite devono trovare la conclusione e l’ultimo scorcio di esistenza trascorre per appianare le difficoltà, i rapporti tesi, le relazioni interrotte. Spesso, quando rimettono ordine nel proprio vissuto accettano più serenamente l’incontro con la morte».
E i parenti?
«Se il paziente è giovane, il lavoro con i famigliari chiede impegno nella preparazione del distacco, perchè rimanga un ricordo nitido di ciò che è stato senza lo sconvolgimento della malattia. Ogni morte, comunque, è un trauma: si lavora sull’accettazione del distacco, sul dopo. Il momento porta con sé, inevitabilmente, la sofferenza del vuoto. Il distacco e il senso di abbandono sono dirompenti ed è inevitabile che lo siano. Ci si può preparare al pensiero della morte, ma non alla morte»
Stare vicino da volontari a questi malati è possibile? Quali qualità bisogna avere?
«Ci vuole serenità. Ma anche equilibrio. Bisogna accettare l’idea che la morte è l’altra faccia della vita. Stare vicino vuol dire saper leggere tra le righe, cogliere lo stato d’animo di chi si ha davanti. Insomma, un amore compassionevole. Innanzitutto, bisogna conoscersi e conoscere i propri limiti , essere in grado di valutare ogni possibile ricaduta sulla propria psiche. Giovane, anziano, donna o uomo non importa: è necessario saper tutelare la propria serenità»
L’hospice di Varese accoglie i pazienti nel loro ultimo cammino. È un’alternativa all’ospedalizzazione domiciliare dove si sceglie di vivere gli ultimi giorni nel proprio letto: «È un’alternativa ma non sempre va bene – chiarisce lo psicologo – Le condizioni devono essere ottimali. La malattia, per periodi lunghi, presuppone profonde modifiche nella propria quotidianità e questi cambiamenti sono potenzialmente distruttivi, capaci di incrinare ogni equilibrio, anche i più solidi. Spesso, il reparto ospedaliero permette di vivere in un ambiente tutelato l’ultimo scorcio di vita, mantenendo integri i rapporti familiari. Ognuno deve scegliere l’alternativa migliore per la propria situazione. L’idea che in ospedale ci sia disumanizzazione fa parte del passato».
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