Addio a Peo Maroso, simbolo del Varese

Si è spento a 78 anni il presidente onorario biancorosso; era malato da circa un anno. Bandiera del club da oltre quarant'anni è stato giocatore, allenatore e dirigente, vincendo campionati in ogni ruolo

Il “signor Varese” ha chiuso gli occhi per sempre. La notte tra il sabato e la domenica si è portata via l’uomo che più di chiunque altro poteva vantarsi di essere il simbolo della società biancorossa, Peo Maroso.
Era malato da circa un anno e da tempo aveva limitato le uscite pubbliche: l’ultima risale alla presentazione a Masnago di mister Fabrizio Castori: era sua abitudine dare il benvenuto al nuovo allenatore cui, idealmente, passava un testimone che giustamente considerava suo.
Giocatore in gioventù, poi allenatore a più riprese e ancora presidente fino a ricoprire (tuttora) la carica di presidente onorario per garantire la continuità tra la gestione di Ricky Sogliano e quella attuale di Antonio Rosati: Maroso ha attraversato oltre quarant’anni di storia varesina vincendo anche diversi campionati . Una vita speciale, quella del Peo, segnata quando aveva appena quindici anni dalla tragedia di Superga: nel Grande Torino giocava suo fratello maggiore, quel Virgilio che era l’idolo del piccolo Pietro. E non a caso Virgilio è il nome che porta il primogenito di Peo che secondo logica avrebbe dovuto diventare il successore del fratello in granata. Approdato al Toro però, Pietro fu fermato da un medico che ne fermò l’ascesa rilevando un problema cardiaco che invece non si palesò nel corso della carriera. Maroso andò così alla Fossanese e all’Ivrea, continuando però a lavorare nella fonderia della Fiat; dal Piemonte si mosse solo per l’interessamento del Varese: nel 1965 iniziò così una lunghissima storia d’amore con il biancorosso. Da giocatore visse alcuni dei momenti più alti del calcio all’ombra del Sacro Monte, quelli della presidenza di Giovanni Borghi (nella foto: Maroso e Anastasi), mentre sotto il figlio del “Cumenda”, Guido, Peo divenne allenatore e subito proseguì la tradizione del Varese capace di risalire in Serie A dopo ogni retrocessione tra i cadetti. Maroso tornò a dirigere i biancorossi nella seconda metà degli anni Ottanta e fu ancora capace di centrare una stupenda promozione

dalla C2 alla C1 nel 1990, uno dei rari “lampi” del calcio varesino di quegli anni.
Ma anche senza sedersi in panchina Maroso ha continuato ad aleggiare su Masnago, anche quando “bonipertianamente” decideva di non assistere alle partite o magari di andarsene dopo un tempo. Tanto, amava ripetere, dalle finestre aperte di casa sua fiutava con precisione l’andamento delle gare. E così ecco il Maroso presidente della rinascita, quando il vulcano Sogliano fece ripartire la società dopo il terremoto dell’era Turri: i due erano compagni di squadra (appunto nel Varese) ed è bello pensare che Peo fosse uno dei pochi capaci di arginare l’esuberanza di Ricky che teneva il vecchio amico in grandissima considerazione. Ora per Peo c’è una visuale privilegiata per guardare le vicende del Varese. E c’è da credere che da lassù, sempre con qualche strano berretto a coprirgli la pelata, sbircerà verso l’erba di Masnago per dare una spinta in più ai ragazzi di Castori. Perché per andare in A serve un miracolo, ma Maroso il Varese, nella massima serie, ce lo ha già portato. Ciao Peo.

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Pubblicato il 16 Settembre 2012
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