A chi giova il ritorno delle divise sul San Martino?
72 anni fa la battaglia che fece morti da entrambe le parti. Alla vigilia di una rappresentazione scenica, le considerazioni di un lettore appassionato di storia locale. “Alcune ferite non sono ancora chiuse”

Ci sono ancora ricordi di guerra vivi nella mente di chi abita questi luoghi.
Non memorie, ricordi veri e propri, pensieri che partono da paure lontane ma subite in un momento in cui i civili ebbero di fronte lutti, pianti, in una parola: orrori della guerra.
La battaglia del San Martino verrà ricordata con una commemorazione ufficiale domenica prossima. Quasi in concomitanza con quell’evento avrà luogo una rappresentazione con costumi militari d’epoca di uomini in armi che si fronteggiano: da una parte le mostrine della Repubblica Sociale di Salò e della Wehrmacht, dall’altra quel che rimaneva delle divise sbiadite del regio esercito, qualche calzettone e pantalone alla zuava, maglioni di lana e scarpe da montagna: era l’abbigliamento dei primi partigiani.
Ma qual è l’utilità di questa manifestazione? Se lo chiede Carlo Banfi, un lettore del posto, appassionato di storia locale, che conosce gli eredi di quelle storie e forse ancora alcuni dei suoi interpreti, giovanissimi in quel 15 novembre del 1943 che segnò la Valcuvia
Diamo spazio a questa lettera non per voglia di polemica, ma per necessità di dibattito su una vicenda che appartiene alla storia recente di questi luoghi.
(Andrea Camurani)
Domenica 15 novembre a Cassano Valcuvia si commemora ufficialmente quel tragico evento. I rappresentanti dei paesini delle valli, e non solo, si trovano uniti nel tributare testimonianza a quello che è accaduto.
Il “Gruppo 5 giornate”, composto da circa 150 uomini, sotto la guida del colonnello Carlo Croce – nome di battaglia “Giustizia” – dopo l’8 settembre ’43 si è trincerato sulla Linea Cadorna che costella il San Martino, per non cedere armi e onore italiano agli occupanti germanici e ai fascisti che ne erano diventati strenui sostenitori.
Un’altra commemorazione, organizzata sul territorio di Mesenzana, si premura di ricordare con una rappresentazione di figuranti quanto accaduto in quei giorni.
Questo paesino è stato teatro importante dello scontro tra assediati e assalitori tedeschi. Già dal primo insediamento, là in alto, delle truppe italiane, donne e uomini di Mesenzana si erano premurati di aiutare quel contingente trasportando cibo ed armi a costo della vita. Qualcuno era già ricercato e ha anche visto la fine da vicino con le pallottole tedesche che gli passavano sopra la testa in una fuga precipitosa.
Prima dello scontro decisivo, al ponte sul Gesone che apre l’accesso dal paese verso la montagna, c’è stato un caduto tedesco, colpito da un ufficiale italiano, uno dei più spericolati anche nel corso della battaglia. Un anno dopo tradirà il colonnello Croce e favorirà la sua cattura in Valtellina. Diversi dei combattenti del San Martino verranno imprigionati per sua delazione.
Questo personaggio, dopo il fatto del ponte, si salva perché una donna di Mesenzana lo nasconde in un pollaio. La reazione dei tedeschi arriva al proposito di incendiare il paese. Voci riportano che un’altra donna di Mesenzana intercede presso il comando tedesco ed evita la ritorsione.
Prima di sferrare l’attacco i tedeschi creano terra bruciata attorno alla montagna, in modo che nessuno possa portare aiuto alle truppe resistenti. Gli uomini che vengono rastrellati a Mesenzana sono rinchiusi nel palazzo comunale.
Nella frazione di Cavoiasca, oltre il ponte sul Gesone, il giorno dell’assalto germanico, ancora una donna, ignara di quello che stava accadendo, accende un fuoco per bruciare come consuetudine i ricci di castagne. Dal territorio di Brissago presidiato dai tedeschi, partono colpi di mitragliatrice che la colpiscono gravemente. Manda la figlia, una ragazzina, a cercare aiuto al Roncaccio di Brissago da dove han visto, sentito le grida disperate e accolto la bimba, ma nessuno era in grado di portare soccorso. Quella donna di Mesenzana muore dissanguata.
Dopo tre giorni di scontri durissimi, al Roncaccio arriva uno del San Martino. Era riuscito a passare l’accerchiamento tedesco. Aveva pantaloni e mutande a brandelli per una bomba a mano esplosagli dietro, il sedere era un grumo di sangue. Per i giorni successivi verrà tenuto nascosto e solo quando i tedeschi allenteranno la morsa, potrà tornare a casa.
Quello scontro purtroppo ha visto parecchi caduti, tanti, da un parte e dall’altra. Ma la guerra continuava e nelle case di Mesenzana si trepidava per il figlio lontano, in mare, sui monti, nelle pianure sterminate… dov’era? Poi si verrà a sapere: su una corazzata affondata, circondato dai greci che erano andati a circondare, nei lager della Germania…
Qualche mese dopo lo scontro del San Martino avviene una tremenda scoperta a Mesenzana, allora unita amministrativamente con Brissago: è una fossa comune. Si tratta di otto prigionieri del San Martino, prima chiusi negli scantinati – ora camera della memoria – delle scuole di Rancio, torturati e massacrati dai tedeschi inferociti per i camerati persi nello scontro. Poi quei partigiani sono affidati ai fascisti che li finiscono lungo il Margorabbia – ora territorio di Brissago – e lì sommariamente sepolti. Dicono che uno di questi giovani probabilmente era ancora vivo quando l’han messo sotto terra. Durante la riesumazione e in seguito, forse una parola di troppo, un gesto da parte del Podestà, cittadino di Mesenzana, e la sua fine è decretata ed eseguita da parte di ignoti.
Per ritorsione, il 7 ottobre ’44 vengono messi al muro quelli della formazione Lazzarini. Quattro sono immediatamente fucilati dove vengono catturati, alla Gera di Voldomino, cinque al cimitero di Brissago e tre alle Bettole di Varese. Tutti giovanissimi.
A fine conflitto Mesenzana doveva ancora piangere. Il comandante Giacinto Lazzarini, ufficiale dell’Esercito americano e nativo di Mesenzana, non poteva dimenticare quei ragazzi, i suoi uomini: chi aveva delle responsabilità, presunte o reali, doveva pagare. Altre morti, altre lacrime per una guerra che tutte queste vittime probabilmente non avrebbero mai voluto, costrette però a viverla, combatterla e subirla in tutta la sua tragicità.
Ora mi chiedo se è possibile rappresentare queste lacrime senza correre il rischio di tradurle in una messa in scena che sa di fuorviante ostentazione e che svuota il dramma di chi ha vissuto sulla propria pelle simile tragedia.
C. B.
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La rappresentazione scenica si dovra’ vederla per giudicarla sperando che non ricalchi uno qualsiasi dei “palii” che si commemorano in Italia, allora si che sarebbe deleteria. Posso capire che a distanza di 70 anni si voglia guardare piu’ all’aspetto umano dei fatti del San Martino. Ma affermare, come nella penultima frase che “tutte queste vittime furono costrette…” mi sembra ingiusto e fuorviante: i fascisti vollero la guerra per sete di conquista e osannarono il duce quando la dichiaro’. I partigiani la combatterono per liberare l’Italia dall’oppressione e dalla barbarie nazifascista.