Del Torchio: “Libero con una vita da ricostruire”

Il ritorno a casa di Rolando: "Nella giungla ho visto l'orrore. Ora sono salvo e penso a chi è ancora laggiù"

Rolando Del Torchio

«La mia vita è finita il 7 ottobre. Ora devo ricostruire, ricominciare e non è facile». Il rapimento è uno dei crimini più crudeli e feroci che un uomo possa subire. Lo ha provato sulla sua pelle, Rolando Del Torchio, rapito dai terroristi islamici del gruppo di Abu Sayyaf e rilasciato lo scorso 8 aprile, dopo sei mesi di prigionia nella giungla filippina.

Ne è uscito provato, fisicamente ed emotivamente. Dalla figura pelle e ossa di oggi alla fotografia dello scorso anno passano quasi quaranta chili, tanto che lui fatica a riconoscersi allo specchio, ma nell’animo Rolando è sempre la stessa persona forte che nella vita ha affrontato cambiamenti, minacce e difficoltà. Forte ma fragile allo stesso tempo.

«Sto abbastanza bene… Sto cercando di superare il trauma dovuto a quanto ho passato. Riesco a dormire, ma quando mi sveglio all’alba ho ancora sotto gli occhi la tenda nella giungla dove ero rinchiuso. Sto cercando anche di perdere le abitudini che mi erano state imposte. Sono salvo, ma non è tutto finito. Il pensiero alle persone che sono ancora nelle mani dei ribelli è costante. Mi fa soffrire molto pensare a loro, alle condizioni in cui si trovano e ai meccanismi psicologici messi in atto per tenere alta la soglia della paura».

Rolando ce l’ha fatta ma il carico di sofferenza, paura e disperazione che ha patito si avverte come una presenza invisibile. «Mi sono sempre detto: “Rolando non mollare, ce la devi fare, tieni duro” anche nei momenti più difficili. All’ultimo, pochi giorni prima della liberazione, ero esausto, rassegnato avrei voluto morire per essere libero. La fede? Mi ha aiutato molto, la fede alla Rolando – sorride -. Ho pianto, pregato, parlato con Dio e ci ho anche litigato. Gli dicevo: “Non puoi stare a guardare in silenzio, devi fare qualcosa, non puoi farmi morire qui”. Ero disperato ma sentivo anche che dietro tutto quello che mi stava succedendo c’era un grande regista. Ora sono libero e ne sono ancora più convinto».

L’ex missionario, di recente titolare di un ristorante a Diplog, Ur Choice Cafè, non è una persona come le altre. E senza dubbio è per questo che hanno scelto proprio lui: «Mi consideravano ancora un prete e mi credevano una persona arrivata lì per combattere l’islam. Si erano fatti questa idea di me e penso che sia questa la ragione che li ha portati a rapirmi». Per le persone che ha incontrato nelle Filippine e non solo da sacerdote, Rolando ha fatto molto. Ad Angera, chi lo ha conosciuto, lo ha definito, altruista, coraggioso e più nell’essenza, un uomo buono. Non è una coincidenza dunque, se nei luoghi dove ha vissuto il ricordo sia tale. Su una parete della cattedrale della città filippina, durante i giorni del rapimento, un cartello recitava “Rolando è nostro figlio”. Un messaggio forte, che insieme al coraggio dei suoi dipendenti, che dopo due giorni hanno riaperto il locale aspettando il suo ritorno, comunica molto dell’attaccamento della gente del posto verso quell’occidentale che non ha esitato ad aiutare gli ultimi, dare lavoro alle ragazze madri e alle donne, che si trovavano più in difficoltà.

Rolando Del Torchio rapito nelle Filippine

Dall’altra parte del mondo, in Italia, si è pregato e si commuove Rolando, pensando all’affetto e alla vicinanza delle persone della sua cittadina natale. «La parola Grazie non basta a definire quello che provo verso la comunità di Angera. Ho apprezzato i messaggi di vicinanza ma anche la discrezione e il rispetto della mia volontà di trascorrere queste giornate nell’intimità della mia famiglia. Mi è mancata così tanto e ora ho bisogno di restare con loro».

Del Torchio non alza mai i toni, nemmeno quando parla dei suoi rapitori: «Sono esaltati dalla religione e vivono in un ambiente di morte, io ho trascorso sei mesi in quell’ambiente di morte. C’erano armi attorno a me, c’era un modo arrogante di fare la guerra e di usarle e di sparare. I miei carcerieri erano di tutte le età, perfino bambini.

A 11 anni hanno già le armi in mano. È spaventoso quello che ho visto. I più grandi passavano il tempo a raccontarsi le azioni di guerriglia e a guardare i video dell’Isis. Dentro di me avevo molta rabbia. Mi chiedevo: «Con che diritto, potete tenermi qui rinchiuso e decidere della mia via. Un Dio non può chiedervi questo, non può volerlo. Ho pensato molto, anche quando sono tornato a casa, ai prigionieri del nazismo. Penso che si chiedessero le stesse cose».

Ascoltando Rolando, nella scelta dei ricordi e nella misura delle parole, si ha l’impressione che nemmeno una tragedia come questa abbia trasformato quell’ “uomo buono” che parenti e conoscenti hanno descritto nei giorni della prigionia. La rabbia e il rancore non sono mai in prima fila nei suoi racconti: «Uno dei miei carcerieri, prima di caricarmi sull’autobus che mi avrebbe portato alla libertà mi ha detto: “Sei un bravo uomo, scusa se ti ho insultato e ho usato crudeli parole con te”.

Maria Carla Cebrelli
mariacarla.cebrelli@varesenews.it

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Pubblicato il 29 Aprile 2016
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