Troppi incidenti stradali, è colpa del capitalismo

Il botta e risposta tra due lettori che si parlano su piani diversi nel commentare la piaga dei sinistri stradali

Avarie

Egregio direttore,

Ribadisco il punto cruciale della mia posizione sulle cause degli incidenti stradali e
sulle loro dimensioni parabelliche: siccome un modo razionale e umano di trasporto
costituirebbe una minaccia per l’accumulazione capitalistica, si tende a perpetuare un modo irrazionale e disumano. Sennonché l’ottica parenetica e moralistica con cui Emilio Vanoni affronta il grave problema che è al centro della nostra attenzione gli preclude ogni approccio radicale e risolutivo, capace cioè di identificare e cogliere le radici socio-economiche del fenomeno della mobilità stradale in generale e, nella fattispecie, in un paese come il nostro. L’Italia, infatti, secondo l’Osservatorio Autopromotec, un centro di ricerca legato alla stessa industria automobilistica, ha il nefasto primato del maggior tasso di motorizzazione in Europa con un numero di incidenti mortali proporzionale a questo primato e con effetti devastanti sul piano dell’inquinamento atmosferico, della salute pubblica e della vivibilità urbana: 62,4 auto ogni 100 abitanti (dopo l’Italia, ma a distanza di ben sette punti, vi sono la Germania con 55,7 auto ogni 100 abitanti, la Spagna con 49,3 auto ogni 100 abitanti, la Francia con 47,9 auto ogni 100 abitanti e il Regno Unito con 47,2 auto ogni 100 abitanti).

Dal canto suo, rinserrato in un microcosmo virtuista, Emilio Vanoni, non riuscendo a comprendere che la vita sotto il capitalismo dipende inscindibilmente da una configurazione sociale e reale della disumanità contro la quale il singolo individuo è impotente, presume candidamente che il colpevole dell’incidente stradale sia, ‘tout court’, il guidatore e, per convincere questo soggetto recalcitrante che, distratto dal cellulare, eccitato o intontito dall’alcol, o semplicemente dominato dal dèmone della fretta, spinge troppo il piede sull’acceleratore, gli rivolge un predicozzo in cui l’andare
piano diventa, nientedimeno, uno stile di vita.

Dopodiché, come se non bastasse, il Nostro, leggendo ciò che ho scritto nella lettera intitolata “‘Andare piano’: un falso rimedio”, in cui affermo che “gli incidenti sono radicati nella realtà sociale: sono una forma di necessità in situazioni di non libertà”, fraintende persino il significato del termine ‘necessità’ che, nel contesto ove io lo adopero, ha, oltre ad un significato ontologico-sociale, una precisa accezione tecnica, in quanto indica una categoria della logica modale. Ma il Nostro, interpretandolo erroneamente nell’accezione pragmatica come sinonimo di ‘bisogno’ o ‘urgenza”, mena scandalo perché, secondo la sua ermeneutica zoppicante, inviterei a “non rispettare i limiti di velocità” e “arriverei ad assolvere i pirati della strada”. Rassicuriamo perciò il Vanoni, questo virtuista, ermeneuta e logico a buon mercato, che io ho adoperato questo termine come sinonimo
di “ciò che non può non essere”, non come sinonimo di “ciò che deve essere”, e quindi l’ho contrapposto al significato di ‘incidente’, termine che, in quanto espressione della categoria della contingenza, significa “ciò che può essere o non essere”, laddove, fra l’altro, vale la pena di notare che, se raffrontato alle cifre riportate, l’uso del termine ‘incidente’ risulta intrinsecamente apologetico e deviante. Si dovrebbe infatti usare proprio il termine di ‘necessità’ (nel senso, che spero di aver chiarito, di ‘conseguenza logicamente necessaria’); ma usare questo termine, che è l’unico corretto e corrispondente alla realtà atroce che designa, significa porsi su un terreno rivoluzionario (non su quello riformistico dove si distribuiscono aspirine agli ammalati di cancro, non su quello conservatore dove si chiudono gli occhi di fronte a quella realtà, né tanto meno su quello reazionario dove si auspica il ritorno allo stato di natura o, come oggi si preferisce dire, ad una “decrescita felice”).

Concludendo, è evidente che di fronte al carattere oggettivo ed inevitabile della
crescita degli incidenti stradali nel nostro paese, la risposta “umanistica” (andare piano come stile di vita) ha un carattere meramente postulatorio: è, in buona sostanza, un appello al guidatore a stare attento alla strada e ad ignorare i processi socio-economici che provocano gli incidenti. Altrettanto postulatorio è contrapporre all’Italia, come modello etico-sociale, un paese che, come la Svizzera, è sette volte più piccolo dell’Italia (per tacere di altri discutibili aspetti che lo caratterizzano: dalle banche all’armamento, dalla sanità pubblica su base privata all’ostracismo antisindacale).

La risposta, che ho definito “umanistica”, mi ha fatto quindi pensare ad una storiella sulla psicoanalisi riferita da Max Horkheimer. Un mendicante sogna un miliardario e, quando si sveglia, incontra uno psicoanalista, il quale gli spiega che il miliardario è un simbolo che rappresenta suo padre.

“Strano”, osserva il mendicante. Parimenti, una persona che ragioni sensatamente sulle cause oggettive e reali dei cosiddetti “incidenti” automobilistici non potrebbe rispondere diversamente dal mendicante ad un mentore della corretta circolazione stradale che lo inviti ad “andare piano” come stile di vita, poiché si renderebbe conto che sia nell’un caso sia nell’altro la realtà sociale, spogliata della propria oggettività, viene psicologizzata e individualizzata; sia nell’un caso sia nell’altro il processo e i conflitti sociali sono interpretati come se fossero psicologici e individuali. Il credo degli umanisti e dei virtuisti del tipo di Vanoni, anche quando riconoscono l’importanza delle soluzioni collettive nel campo della mobilità, è pur sempre la “reductio ad hominem”. Nell’impazienza di trovare l’umanità, la si vede ovunque, dimenticando e così perpetuando la creazione sociale della disumanità. Poiché tutto è immediatamente umano, c’è bisogno solo di essere un poco più umani e un po’ più rispettosi delle leggi per curare il male. Questo atteggiamento, presentato come se

fosse oppositivo, rientra nello “Zeitgest” dominante e la percezione sociale dei cosiddetti “incidenti”, cioè delle stragi automobilistiche, ne fornisce un esempio paradigmatico. In realtà, a partire dalle morti sempre più invisibili nei luoghi di lavoro (un’altra strage che si cerca di scotomizzare a livello della percezione sociale) ciò che la società capitalistica tende a far dimenticare, nell’epoca più distruttiva della sua crisi, è questa semplice verità: che in un mondo fondato sul profitto e sulla rendita nessuno muore, ma tutti
vengono assassinati.

Eros Barone

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 22 Ottobre 2017
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