C’era una volta l’ospedale psichiatrico, conosciuto in tutto il mondo
La storia della struttura di via Rossi è stata raccontata in una tappa di Nature Urbane. Dalla costruzione negli anni '30 sino alla chiusura

C’era una volta l’ospedale psichiatrico tra i più celebri al mondo. La storia della cittadella di via Rossi a Varese è stata narrata nel corso di uno degli appuntamenti di Nature Urbane, tra i primi ad andare “sold out”.
Tre primari, ex e attuale, Giuseppe Armocida, Mario Augusto Maieron e Isidoro Cioffi hanno raccontato al pubblico gli inizi degli anni ’30, lo sviluppo subito dopo la guerra, i successi ottenuti negli anni ’50 quando da tutto il mondo osservavano la tecnica della “lobotomia transorbitale” che qui veniva attuata, e poi la fase di gestione del “dopo Basaglia” fino alla chiusura avvenuta nel 1998.
Lo storico Giuseppe Armocida è partito da inizio secolo, dalla legge del 1904 che venne approvata per “tutelare la società dai pazzi e pericolosi”: « Varese, una volta diventata provincia, si pose il problema di realizzare una struttura per accogliere i propri malati ricoverati nei manicomi di Como e Milano. All’inizio si fece avanti il comune di Jerago candidando un proprio terreno, ma il capoluogo individuò l’area a Bizzozero, una zona di campagna dove esisteva solo una cascina tra campi coltivati».
La realizzazione del manicomio varesino fu seguita dallo psichiatra Adamo Mario Fiamberti che seguì i lavori di costruzione di una cittadella vera e propria, formata da palazzine basse di due piani con il giardino annesso. Nel cuore della cittadella venne eretta la chiesa “non una cappella ma una chiesa vera” ha sottolineato Armocida « dove, alla domenica, gli ospiti si agghindavano per andare a seguire la messa».
La struttura venne poi trasformata in ospedale da campo negli anni della seconda guerra mondiale: nei padiglioni trovarono assistenza i soldati tedeschi feriti. Proprio uno di loro volle regalare alla struttura una serie di affreschi dedicati a città da lui visitate e che ancora oggi sono visibili nel padiglione Golgi, recuperati dalla restauratrice Bianchi.
Superata la guerra, i padiglioni dello psichiatrico tornarono dimora di pazienti psichiatrici ( si arrivò fino a 1200 ospiti), chiusi nelle loro divisioni, assistiti da medici e suore, impegnati, chi era in grado, in lavori di agricoltura, falegnameria o cucito.
Una cittadella chiusa « Chi entrava perdeva ogni diritto civile. A questi tempi era il giudice, ascoltato il medico, a decidere sul destino delle persone» ha ricordato ancora Armocida assistito dal dottor Maieron arrivato nel 1963 quando divenne primario uno tra i più celebri psichiatri italiani Edoardo Balduzzi succeduto a Fiamberti, e che vi è rimasto sino al 1989, dodici anni dopo l’approvazione della legge Basaglia che decise di dare un’accoglienza diversa ai pazienti affetti da patologie mentali: « Una legge – ha sottolineato il dottor Cioffi, primario attuale del Dipartimento di salute mentale dell’asse Sette Laghi – voluta più per questioni economiche che sanitarie».
Dal 1989, la storia della psichiatria varesina , come quella nazionale, è cambiata. L’ex ospedale diventa sede degli uffici dell’autorità sanitaria, Usl, Asl e ora Ats e, dal 1994, anche dell’Università che vi portò gli studenti di medicina.
Tra le vie alberate oggi la vita è cambiata: nei diversi padiglioni Biffi, Antonini, Morselli, Golgi , grandi nomi della psichiatria passata, si respira un’aria decisamente diversa. Per rivivere l’atmosfera di quelli anni occorre arrivare di notte: « Il silenzio e la tranquillità riportano indietro nel tempo. Quando pazienti e assistenti si chiudevano nei propri padiglioni in un clima composto e sobrio» ha ricordato Armocida leggendo un passo del libro che lui e il dottor Maieron hanno scritto per non dimenticare l’esperienza di quello che è stato uno tra i più rinomati ospedali psichiatrici al mondo.
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