Famiglie fragili, ansia e istinti prevaricatori: i giovanissimi sono in crisi e la richiesta di cure esplode
Il dottor Giorgio Rossi ha lasciato per raggiunti limiti di età il reparto di neuropsichiatria infantile all'ospedale Del Ponte. Parla di come è cambiato il bisogno e dell'offerta di cura che andrebbe potenziata

È stato il primo responsabile del nuovo reparto di degenza di neuropsichiatria infantile dell’ospedale Del Ponte di Varese. Una pietra miliare nella nascita di uno dei 5 poli pediatrici della nostra regione.
Il dottor Giorgio Rossi dal primo dicembre è andato in pensione, ha lasciato le redini al professor Cristiano Termine uno due maggiori esperti di disturbi cognitivi in età pediatrica.
La scelta di diventare un neuropsichiatra infantile risale ai tempi del liceo: « Ero affascinato dal funzionamento della mente ma volevo abbinarlo alla medicina – racconta il dottor Rossi – la neuropsichiatria infantile mi dava la possibilità di indagare la complessità di funzionamento del cervello con un’attenzione all’aspetto internistico».
Oggi la richiesta di cura è esplosa
C’è una grande sofferenza diffusa, che sfocia nell’autolesionismo e nella suicidarietà. Vediamo moltissimi pazienti che hanno pensieri di morte. I comportamenti alimentari sono peggiorati. Al nostro reparto accedono meno casi di bulimia, nonostante siano in numero maggiore, ma moltissimi di anoressia. Sono per la gran parte ragazze con pensieri suicidari, più frequenti rispetto al passato. Poi ci sono i disturbi comportamentali legati a una sofferenza diffusa, all’ansia esistente che inducono i nostri ragazzi a una maggiore aggressività verso sé stessi o verso gli altri. È un atteggiamento sociologico che si percepisce e che poi va a impattare su ragazzi che hanno altri tipi di sofferenze. Una miscela esplosiva.
Quando lei ha iniziato, quali erano i maggiori problemi, la complessità, i quadri sociali e famigliari che doveva affrontare.
Parliamo di 30 anni 40 anni fa? Allora effettivamente la situazione era diversa. Le famiglie erano meno disgregate, anche perché c’era meno povertà, meno famiglie fragili, meno psicopatologia dei genitori. Statisticamente anche meno immigrazione che è un elemento di fragilità. C’era una rete famigliare un po’ diversa. I problemi erano simili, ma si sono acuiti, sicuramente peggiorati: incertezza diffusa, insicurezza. Si parla spesso di “eco ansia” che riguarda questioni molto complesse e generali ma che i nostri giovani vivono in prima persona. Dobbiamo anche ammettere che sono cambiate le reti sociali, il modo in cui funziona la famiglia. Uno dei temi all’ordine del giorno è il ruolo della donna che va a incrinare il sistema patriarcale e che innesca un’aggressività inedita. Nel nostro osservatorio classico non è emerso in modo dirompente, ma si vede che c’è una aggressività diffusa di maschi che non sopportano il divenire femminile. La fragilità femminile è diventata forza ma i maschi faticano ad assecondare il cambiamento e restano ancorati a modelli primitivi, che cercano di contrastare con atteggiamenti prevaricatori, aggressivi, prepotenti. Ecco, la prepotenza è più diffusa rispetto a 30 anni fa.
La famiglia fragile, il ruolo della donna nella comunità: il cambiamento richiede tempo. È questa una fase di transizione?
Sì, penso che sia una fase difficile. È un aspetto rilevante quello dell’accettazione del nuovo modo di funzionare della società e del nuovo ruolo della donna. Alcuni maschi rimangono come se avessero il cervello rettile di milioni di anni fa. Ma non solo questo. C’è anche una sorta di narcisismo contagioso, veicolato anche dalla comunicazione diffusa e immediata, dai social innanzitutto. Assistiamo alla nascita di “club di violenti” a cui voler appartenere. Non ne sono sicuro, ma ho la sensazione che ci sia anche una componente narcisistica che viene potenziata dal branco. È un tema complicato e per affrontarlo occorrerebbero le strutture sociali che sono anche smantellate da tempo. Parlo, ad esempio, del ruolo che aveva una volta la chiesa e lo dico da laico. Non ci sono più agenzie che si occupino degli aspetti comportamentali del gregge. Aggiungiamo che nelle famiglie la figura del padre è in crisi, quello della donna è migliorato ma solo parzialmente, il narcisismo dilagante, l’odio che circola in internet, il cyberbullismo. È una miscela da gestire con grandissima cautela.
Ma da qualche parte tanta violenza va arginata. Come?
Se parliamo di prevenzione secondaria e terziaria, cioè, quando il soggetto è già indirizzato a sviluppare questi problemi, si interviene clinicamente sulla famiglia. In particolare, con la prevenzione terziaria si lavora per evitare che i disturbi conclamati peggiorino. È la prevenzione primaria che serve a evitare che si arrivi ai disturbi. Ma quella che oggi si propone non riesce a coprire tutto il bisogno. Ci sono risposte per arginare i comportamenti prevaricatori, ma non è semplice intercettare questa richiesta perché i prepotenti non vogliono essere aiutati. È questione di investimenti: ci sono esperienze, come a Pisa, con il progetto “Al di là delle nuvole” dove si interviene sui soggetti che hanno questo tipo di funzionamento. È un investimento difficile, un lavoro difficile, soprattutto per quei ragazzi che non vogliono farsi aiutare.
E in Lombardia com’è la rete di sostegno? Il suo è uno dei 5 reparti di degenza, non è un’offerta sottodimensionata?
Sicuramente è sottodimensionata. Si registrano moltissimi ricoveri impropri di bambini e adolescenti in psichiatria o in pediatria, perché non c’è disponibilità Adesso aprirà un reparto nuovo a Cinisello Balsamo e, in prospettiva al Policlinico a Milano che, attualmente, ha soltanto 10 posti letto per tutta la città, come non averli quasi. Quindi no, sicuramente la richiesta è molto più grande.

Ma come mai, secondo lei, questa scarsa risposta?
È una questione di investimenti, ma anche di tipo di investimento che da tanto tempo è carente, penso per miopia politica perché siamo uno dei paesi col più basso indice di posti letto rispetto alla popolazione adolescenziale e il bisogno continua ad aumentare.
Una fascia di età molto delicata, per cui se la si intercettasse tempestivamente…
Non è tanto il reparto che deve intercettare. Si deve lavorare sulla prevenzione già durante la gravidanza. Individuare le famiglie fragili, sia il consultorio sia il pediatra. Occorrono progetti che coinvolgano le famiglie con i bambini piccolissimi. Noi avevamo fatto un lavoro in questo senso per due anni, puntando sulla prevenzione nella fascia dei piccolissimi. È un’attività che dovrebbe proporre il consultorio, se solo avesse risorse sia di personale sia economiche superiori. Però dovrebbe essere un investimento da fare. Costa, ma occorre coinvolgerli da piccoli.

Lei ha parlato del suo reparto che gestisce la fase acuta. Una volta che escono dal reparto la rete sociale, la rete che li accoglie in questo momento, secondo lei è adeguata?
È adeguata qualitativamente ma quasi sempre limitata. Le dimissioni dal reparto sono protette e spesso ce la facciamo. Se sono della nostra zona, li continuiamo a seguire con progetti specifici. Offriamo la psicoterapia, che non è una cosa da poco. Un servizio così offerto dal pubblico è quasi un lusso e l’azienda Sette Laghi sostiene questa offerta. La rete, in generale però, ultimamente è fragile: il personale limitato, sono scarsi i posti disponibili nei centri diurni, le comunità, che non sono poche in Lombardia, funzionano con una certa fragilità. Sono più robuste quelle di altre regioni ad esempio Emilia Romagna o Piemonte.
Sotto la neuropsichiatria infantile si raccolgono bisogni molto complessi, anche meno traumatici. Secondo lei, alla luce di quello che è lo sviluppo della neuropsichiatria infantile, la rete di cura non è riuscita a stare al passo con il bisogno o il bisogno è esploso improvvisamente?
Direi entrambe le situazioni. Sicuramente il bisogno è esploso dopo il covid, ma la complessità sociale che ci troviamo addosso non è andata di pari passo con il potenziamento della rete che, invece, si è progressivamente indebolita per mancanza di personale. C’è una carenza di personale di cura a tutti i livelli, anche strutturale. I reparti come quello del Del Ponte avrebbe bisogno di un centro diurno, di una struttura parallela che possa prevenire il ricovero o comunque garantire il posto in reparto in maniera più organizzata più articolata. La rete, per quanto le persone si impegnino, siano formate e preparate, è limitata. È un dato generale italiano non solo della nostra realtà varesina. Noi, al Del Ponte, abbiamo un reparto di 10 letti, più 2 di day hospital, che funziona bene: nonostante il personale sia al limite, posso assicurare che è molto preparato, dedito, appassionato, attento e che fa della gentilezza la sua regola ferrea. Poi abbiamo la Fondazione Ponte del Sorriso che ci permette l’umanizzazione con tanti progetti dall’arteterapia, allo yoga, alla mindfulness, e poi l’argilla e l’aromaterapia la Pet Therapy. Se solo avessimo un giardino…
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