Trenta secondi alla fine
di Alessandra Stifani

Capaci, 23 maggio 1992 ore 17:57.
Un muro di asfalto e detriti capovolge il mondo.
Un pulviscolo denso riempie l’abitacolo. È caldo e opprimente, la stessa aria da sciloccu cattivo di tre anni fa, sulla terrazza dell’Addaura. La nuotata mattutina nel mare tiepido mi aveva lasciato un tumulto di pensieri e lo sguardo perso verso lorizzonte nebbioso. Alle mie spalle Antonio si era sporto all’improvviso dalla balaustra: Rocco risaliva dalla riva, un salto dopo l’altro tra le rocce, il braccio muscoloso da poliziotto addestrato attorno alla vita di Francesca. Lei era splendida, i capelli biondi arruffati dalla salsedine e il costume da bagno rosso comprato l’estate scorsa in via Maqueda. Un amore grande e disperato, il nostro, fatto di lunghe attese e tante rinunce. Un fugace moto di gelosia, poi la realtà aveva presentato il conto: una sacca abbandonata tra gli scogli non conteneva tesori del passato, ma cinquantotto candelotti esplosivi. Pochi minuti e Vito era già in auto col motore acceso, le mani strette sul volante e gli occhi straniti dalla tensione, pronto a portarci in salvo, un’altra volta.
Frammenti di carta volteggiano sul cruscotto nel silenzio assoluto, innaturale. Sono farfalle all’ultimo volo che si posano tra scaglie di vetro e lamiere accartocciate.
Non capisco. Ieri sera la scrivania al ministero era in perfetto ordine. La lascio sempre così prima di uscire. Pochi minuti e tutto é a posto: il vassoio da ufficio pieno di inutili circolari e direttive, le penne affiancate come soldatini e la mia preferita nel taschino. Sono lontani i tempi di Palermo, quando non c’era un attimo per vivere, figuriamoci per riordinare… e sul mio tavolo crescevano pile di fascicoli tra i posacenere stracolmi di mozziconi e i cartocci unti di Spinelli alla Zisa. Un monumento ai pasti saltati, alle nottate senza fine e all’incrollabile passione per la giustizia.
C’è puzza di bruciato.
Ora ricordo, é il fumo del braciere improvvisato da Paolo nel cortile della Casetta Rossa all’Asinara. Una vacanza, aveva detto alla moglie, una necessità di sicurezza, gli aveva imposto l’Ufficio. In verità era felice di avere la famiglia vicino. Quattro tiri al pallone con Manfredi, come da ragazzi alla Kalsa, poi l’abbraccio di Agnese, gli studi di Fiammetta. Una parvenza di serenità, ma Lucia, sfinita dall’isolamento e dalla paura, aveva smesso di mangiare. Erano cominciati così i tentativi di trasformare in un campeggio il nostro esilio. Paolo rideva sotto il sole dell’estate isolana e bruciava salsicce. Attimi rubati alle lunghe giornate chiusi a scrivere l’istruttoria del secolo. Niente telefono né documenti né appunti, rimasti a Palermo il giorno della fuga precipitosa, un minuzioso lavoro di memoria e ragionamento. La mattina della mia partenza eravamo scesi al molo parlando fitto. Stringeva sotto il braccio l’agenda rossa, non la lasciava mai. Poi la voce si era fatta incerta.
– Te ne vai per primo, Giovanni, ma io ti seguirò sempre…
Cala il buio di una notte senza stelle, e l’alba non verrà.
Racconto di Alessandra Stifani (Edizioni Il Cavedio e Anmig Varese)
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