Lavinia Limido: “Mentre mi pugnalava alla testa pensavo ‘grazie, stai salvando mio figlio’”
La testimonianza shock in aula durante il processo a Marco Manfrinati per i fatti di via Menotti a Varese nel maggio 2024, un omicidio e un tentato omicidio. La testimone: “Se dovesse uscire dal carcere ci ucciderà, voglio che la giustizia ci protegga”
Prima le immagini, terribili, con tanto di audio, trasmesse in aula alla scorsa udienza. Un conto è vederle sui monitor della Corte d’Assise di Varese, dove si celebra il processo a Marco Manfrinati per i fatti di via Ciro Menotti nel maggio 2024. Un conto è invece rivederle negli occhi della vittima.
Lavinia Limido le ha ricordate alla fine di una testimonianza come teste dell’accusa, un’escussione durata oltre quattro ore, carica di commozione e rabbia. Lacrime sgorgate sul volto ancora segnato da quelle coltellate sferrate dal suo ex marito il 6 maggio 2024, trovato con il coltello ancora in mano dopo aver colpito con decine di fendenti la stessa Lavinia e il padre Fabio. Quest’ultimo era accorso per difendere la figlia con una mazza da golf, che riusciva a maneggiare con una sola mano a causa di una lesione tendinea: una minorata difesa che forse gli è costata la vita.
Poi il racconto della superstite, salva per miracolo. Una cronaca in prima persona arrivata al termine di una giornata d’udienza lunghissima, dove è entrato a piè pari il pregresso tra Lavinia e Marco: prima fidanzati, poi coniugi con un figlio, fino alla rottura che ha portato al dramma.
Da un lato, l’accusa e la parte civile hanno ricostruito fatti ritenuti sufficienti a inchiodare l’imputato alle proprie responsabilità. Dall’altro, la difesa ha tentato di invocare l’attenuante del “fatto ingiusto altrui”, traducendo la fuga di Lavinia dalla casa coniugale con il figlio come la miccia della reazione omicida. Una tesi rigettata dalla donna: «È stato brutto raccontare per l’ennesima volta ciò che ho vissuto quel giorno, ma anche tutti gli antefatti di una morte triste e prevedibile. È stato brutto sentire la voce di Manfrinati, anche solo registrata. I processi tengono sempre vivo un dolore che c’è».
Dolore che si è visto, crudo e puro, negli occhi della vittima davanti ai sei giudici popolari e ai due togati (presidente Crema, a latere Brusa). Il ricordo di quel giorno ha tolto il fiato anche al pubblico presente in aula. «All’uscita dal lavoro, in pausa pranzo, mi ha aspettata in auto. Ha impugnato un coltello, sono scappata e caduta: lì sono arrivate le coltellate alla faccia e alla testa. Non sentivo male, solo il rumore di metallo che rompe le ossa, lo stesso che riconosco dal macellaio quando taglia le fiorentine».
Un racconto terribile, che trasmette lo stato d’animo di chi ha vissuto quell’attacco. «No, non dovevo nulla mentre mi colpiva. Pensavo solo: “Grazie, con la tua idiozia mi stai uccidendo, ma almeno sto salvando mio figlio dalla stessa fine”».
Lavinia si è salvata dopo giorni in condizioni gravissime e vari interventi maxillo-facciali. Oggi è gradualmente tornata a occuparsi del suo bambino: «È la mia pila, mi tiene viva». Ma il prezzo più alto lo ha pagato suo padre, rimasto senza vita nel giardinetto dopo il tentativo estremo di salvarla. «La fatica che ho fatto nel parlare in aula la devo a lui, certo, che ha sacrificato la sua vita per me».
Cosa si aspetta dalla giustizia? «Che mi protegga. Sono certa che, quando e se Manfrinati dovesse uscire dal carcere, verrà per ucciderci. Non voglio arrivare a sessant’anni con la paura di fare quella fine».
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