Quando gli architetti diventano baristi: Visionare riparte con il Giappone che non ti aspetti
Prima serata di Visionare a Villa Panza con Yuma Shinohara, che ha raccontato come una generazione esclusa dal sistema ha reinventato il ruolo sociale dell'architettura
(Foto di Miriam Broggini)
La prima serata della nuova stagione di Visionare non ha deluso le aspettative che la rassegna dell’Ordine degli Architetti di Varese ha costruito negli anni. Martedì 12 novembre a Villa Panza, Yuma Shinohara ha portato un Giappone inaspettato, lontano dall’immagine consolidata di potenza tecnologica e avanguardia architettonica. Un paese che invecchia, con un’economia stagnante e il trenta per cento di case vuote, ma dove una generazione di giovani architetti sta reinventando il mestiere trasformando la crisi in laboratorio.
Fulvio Irace, direttore della rassegna, ha introdotto la serata con un videomessaggio: impossibilitato a essere presente per un inconveniente, ha raccontato di aver scoperto il lavoro di Shinohara visitando una mostra a Mendrisio. Quello che lo ha colpito è stata la capacità di trasformare dati apparentemente negativi in una narrazione di speranza. «Inizialmente ho pensato che quei dati fossero un omaggio all’Italia», ha confessato Irace, riferendosi alle statistiche su recessione, disoccupazione giovanile e invecchiamento demografico. Invece fotografavano il Giappone di oggi, un paese che condivide con l’Europa un processo epocale di trasformazione.
Poco prima la presidente dell’Ordine degli Architetti, Paola Bassani, ha dato il benvenuto – per la prima volta dalla sua elezione – alla rassegna, ricordando che è arrivata al quarto anno grazie all’intuizione dell’ex presidente Elena Brusa Pasquè e del compianto consigliere Jacopo Pavesi, che ne disegnò anche il logo. Brusa Pasquè ha ringraziato il nuovo consiglio per aver continuato il percorso e ha introdotto Shinohara, sottolineando come i giovani architetti giapponesi abbiano scelto il riuso adattivo, un approccio pragmatico e un impegno sociale critico, preferendo finiture grezze ma di contenuto all’accuratezza formale.
Shinohara, curatore del Museo svizzero di Architettura, ha quindi spiegato cosa significano “guerriglia creativa” e “architettura di strada“, due termini da lui molto utilizzati: non trovando spazio nel sistema formalizzato dominato dalle grandi corporazioni e dalle archistar, i giovani architetti giapponesi hanno scelto infatti di operare fuori da esso. Non stanno seduti alla scrivania ma vanno nella città, interagiscono con i cittadini, si sporcano le mani in tutte le fasi della costruzione. «L’esempio più significativo è quello del collettivo Dot Architects, che da dieci-quindici anni lavora alla rigenerazione di un’area povera di Osaka – Spiega Shinoara – Hanno trasformato edifici abbandonati in un centro culturale multifunzione con ristorante, caffè, bar e spazi espositivi. Ma la cosa più sorprendente è che gli architetti gestiscono direttamente il bar dopo l’orario di studio, rimanendo attivamente coinvolti nella vita del centro. Diventano essi stessi modelli di stili di vita diversi», ha spiegato Shinohara riprendendo la frase che Irace aveva citato nel suo videomessaggio.
Un altro esempio è una coppia di architetti che «Da sette anni trasforma continuamente la propria casa seguendo il ritmo dei cambiamenti della loro vita, come l’arrivo dei figli. L’architettura diventa un lavoro sempre in divenire che si fonde con l’esistenza quotidiana» ha spiegato l’architetto giapponese.
Irace aveva anticipato nel suo intervento i tratti distintivi di questa generazione: lavorano sulle periferie, privilegiano la ricostruzione all’edificazione ex novo, utilizzano materiale di scarto, rilanciano il lavoro manuale fianco a fianco con gli operai, riscoprendo il cantiere in un’epoca di intelligenza artificiale. Trasformano i loro studi in vetrine aperte sul quartiere, quasi centri sociali che ascoltano bisogni e desideri. Una riscoperta del valore olistico del mestiere contro la specializzazione, che Irace ha definito «una spina nel fianco» e «una nuova forma di schiavitù digitale».
Riconoscendo che Giappone ed Europa condividono problemi simili, Shinohara ha precisato che: «Le soluzioni dirette non sono trasferibili per differenze culturali, normative ed economiche. Quello che l’Europa può imparare è l’atteggiamento: in Giappone c’è una forte libertà nell’interpretare le cose, una propensione al rischio, la mancanza di paura nello sperimentare – sottolinea Shinoara – “Perché non provare?” è la domanda che guida questi architetti, in contrasto con l’avversione al rischio che ho percepito nel contesto europeo».
Parlando proprio da Villa Panza, esempio straordinario di conservazione e riuso, Shinohara ha sottolineato che data la profonda crisi ambientale e l’impatto distruttivo della demolizione e ricostruzione, non c’è altra scelta se non lavorare con ciò che già esiste. «Questo è fondamentale soprattutto in paesi con popolazione in invecchiamento come l’Italia – spiega – L’architetto deve avere una prospettiva creativa per adattare il patrimonio esistente agli stili di vita moderni, e questa è una domanda centrale per il futuro della professione».
La serata ha confermato la capacità di Visionare di portare a Varese riflessioni che vanno oltre la cronaca architettonica: quella dei giovani giapponesi non è infatti solo una storia di resilienza professionale, ma un ripensamento radicale di cosa significhi fare architettura quando il sistema tradizionale non offre più spazio. Trasformare la marginalità in forza, la debolezza in atto propositivo, la crisi in opportunità.
E sporcarsi le mani, letteralmente, dietro il bancone di un bar.
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