Maltrattamenti in famiglia, la figlia del boss di camorra denuncia: processo a Varese
I fatti riguardano quanto avvenuto fra due fidanzati poco più che adolescenti. “La mia famiglia in un programma di protezione per testimoni di giustizia, lui metteva il nostro indirizzo sui social”. La madre della vittima: “Lui studiava per diventare come Cutolo"

I capelli tirati e gli sputi in faccia per gelosia. Paroloni di massima offesa, strattonamenti. E sberle date in pieno viso in auto: tutto rivolto alla compagna dalla quale aveva avuto un figlio, e per giunta mentre la donna teneva il bambino, in tenera età, sulle sue ginocchia.
È stata la stessa vittima di quei fatti — denunciati e in gran parte ora ritrattati — ad aver raccontato in aula, a Varese, episodi risalenti a cinque anni fa, quando la ragazza era a cavallo tra la minore e la maggiore età, già diventata madre quasi contro la sua volontà: «Lui voleva un figlio, voleva diventare padre. Ma era ossessionato dalla gelosia».
La telefonata dal numero messo in rubrica come «F», e giù parole pesanti. I rapporti che la ragazza intratteneva con amici, come ne ha una qualsiasi diciottenne, e giù altre offese, inframmezzate da intemperanze, come quella “cervicalgia“ riscontrata dai sanitari dell’ospedale di Varese e messa a referto come elemento costitutivo di una denuncia per un reato grave che, una volta attivata l’azione penale, non consente di tornare indietro.
Fin qui, purtroppo, tutto già sentito e registrato a taccuino: quello tsunami di “codici rossi” che riempie i tribunali e conduce a processi lunghi e delicati, spesso dolorosi per le parti offese, con accertamenti pesanti da ricostruire. Ma questa volta è diverso, perché la parte offesa del procedimento, che si è celebrato di fronte al collegio a Varese, è la figlia di un boss di camorra: un ex “cutoliano“ che ha iniziato a collaborare con la giustizia.
E la sua famiglia, di cui la ragazza fa parte, è entrata in un programma di protezione per testimoni di giustizia. Sono stati gli stessi operatori del programma a consigliarle di denunciare, dopo i reiterati episodi di violenza che avvenivano di frequente e con noncuranza anche della delicatezza emotiva che la giovane stava attraversando anche alla luce dei continui cambi di residenza: tantissime le città del Nord Italia citate come luoghi dove la famiglia aveva trovato riparo, protetta dallo Stato. Luoghi segreti, che tuttavia in un caso – l’ennesimo bisticcio in occasione della festa per il diciottesimo compleanno della ragazza – vennero spiattellati dall’ex fidanzato della giovane nientemeno che sui social, con tanto di indirizzo preciso della residenza protetta.
Mai sposati, i due fidanzati sembrano aver vissuto in una perenne discontinuità relazionale: un “tira e molla” raccontato anche dalla madre della vittima, che in aula ha aiutato la corte a ricostruire i fatti contestati dalla Procura.
Gli episodi raccontati, le relazioni turbolente sono stati anche minimizzati dai parenti. Ma in alcuni tratti dell’escussione è emerso uno spaccato inquietante: da un lato, la forza della ragazza nell’opporre resistenza alle violenze, seguendo la strada offerta prima dalle leggi e poi dalla giustizia. Dall’altro, la volontà dell’imputato di imporsi come uomo dal polso forte, pronto a rivendicare le proprie pretese affettive con violenza verbale e fisica.
E poi quel passaggio di peso: «Lui», ha spiegato la madre della parte offesa, «voleva fare il boss. Voleva comandare e diventare come mio marito. Aveva anche letto dei libri su Raffaele Cutolo».
Oltre a queste pieghe, nel processo il pubblico ministero ha insistito sull’ipotesi della violenza avvenuta alla presenza del minore, a cui — secondo quanto emerso in aula — il padre avrebbe mostrato, senza pudore, proiettili di una pistola durante videochiamate col piccolo. Screenshot del video che la compagna — a distanza, anche a causa del programma di protezione — ha prodotto nel processo.
Il procedimento è ora nella fase dibattimentale, dove la parte offesa ha annunciato di voler rimettere la querela per il reato di lesioni e, se la legge oggi lo consentisse, anche per quello ben più grave di maltrattamenti in famiglia. Fatto che il legislatore, tuttavia, non peermette e dunque il processo prosegue verso le discussioni finali delle parti.
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