Contadini che resistono. I fratelli Bellotti: “Dopo di noi non ci sarà nessuno”
Dal primo trattore del Dopoguerra alle quote latte, dai corsi di aggiornamento al "sì" agli Ogm. Sessant'anni di lavoro e nessun erede a cui lasciare l'azienda agricola

La prima storia che vogliamo raccontare in questo viaggio tra gli agricoltori che resistono, è quella di Enrico Bellotti (foto). Lui, con i suoi fratelli, lavora nell’attività di famiglia da sessant’anni ed è un po’ la memoria storica di quello che è stata l’agricoltura nel nostro territorio.
Ci siamo fatti raccontare come, tra peripezie varie, sia cambiato il mestiere e il rapporto con la città. La sua azienda ha terreni tra Busto e Sacconago e anche qualcuno in conduzione all’interno del Parco Alto Milanese, dove producono cereali destinati al mercato dell’alimentazione animale, ma si prepara e vendere tutto, vista la veneranda età dei tre fratelli e la mancanza di un ricambio generazionale.
“L’agricoltura per noi è stata una via di mezzo tra una passione e una necessità. Quando morì nostro padre ci siamo ritrovati a dover mandare avanti i campi nei quali giocavamo da bambini, quindi si può dire che ci siamo nati con questo amore per la terra. Siamo stati tra i primi a meccanizzare il lavoro qui in zona, comprammo il primo trattore nel ’51”.
Logicamente il contesto era molto diverso: “Prima eravamo in via Cairoli, ci siamo spostati qui (via Canale ndr) quando abbiamo iniziato a stare stretti tra le fabbriche. All’epoca avevamo anche un centinaio di mucche, facevamo sia latte che carne. Poi quando hanno incominciato a far espandere la zona industriale lo spazio si è ridotto ancora, e successivamente la ferrovia ha praticamente tagliato in due i terreni. Per ovviare alle spese che progressivamente aumentavano, abbiamo dovuto costruire un pozzo, con il quale irrighiamo la quasi totalità dei campi. Un grande problema per noi è la grande quantità di rifiuti di ogni genere che compaiono tra le coltivazioni, che, alle volte, per problemi burocratici, ci impediscono addirittura di smaltire”.
Il grande scoglio che secondo loro danneggia la valorizzazione dei prodotti è la burocrazia e chi sta sopra essa, che spesso e volentieri si trova a dover decidere in merito a questioni che non ha potuto testare con mano: “Con la storia delle quote latte si è deciso di vendere le mucche, perché non riuscivamo più a starci dietro, ma ne abbiamo tenute un paio che ci danno il latte per la famiglia. E’ la burocrazia che fa diventare difficile l’attività, i dirigenti non hanno idea di quello che è nel concreto fare questo mestiere. Noi da un certo punto di vista ci riteniamo privilegiati, perché raccogliamo quello che ci dà la terra e lo sappiamo apprezzare, ma senza l’educazione al mangiar bene e il ricambio generazionale l’agricoltura non ha futuro. O almeno, dev’essere accompagnata da attività parallele, come agriturismi o laboratori, che permettono di arrotondare”.
E’ interessante vedere anche come, nell’arco del tempo, siano cambiati i modi e gli strumenti con cui l’agricoltore si approccia al proprio lavoro. Per esempio ci raccontano di essere a favore degli OGM e di aver frequentato decine di corsi di aggiornamento che gli hanno permesso di stare al passo con i tempi. Adesso, per mancanza di alternative e con l’età che avanza, stanno riducendo la produzione che arriverà a cessare del tutto entro l’anno prossimo. Rimangono solo due mucche, un frutteto e un po’ di polli nel loro giardino, testimoni di un tempo lontano lontano.
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