L’impresa non deve comprare l’anima del dipendente

Alessandro Profumo, amministratore delegato di Unicredit, e il sociologo Aldo Bonomi si sono confrontati sul tema della responsabilità sociale d'impresa in un dibattito organizzato dalla facoltà di economia dell'università dell'Insubria

alessandro profumoLa strada che conduce alla responsabilità sociale d’impresa è lastricata di dubbi e incertezze anche per Alessandro Profumo (foto), uno dei più importanti manager italiani. Nell’incontro organizzato dalla facoltà di economia dell’università dell’Insubria, nell’ambito della rassegna "Non solo economia", e dedicato appunto al tema della responsabilità sociale dell’impresa, l’amministratore delegato di Unicredit, come in un esercizio di decoupage concettuale, ne ha ritagliato il profilo, scartando tutto il superfluo. Per Profumo, che ha sottolineato di non essere un esperto in materia, la responsabilità sociale non è beneficenza, tantomeno welfare, e non puo’ essere ridotta al solo rispetto delle leggi o al pagamento puntuale delle tasse.
«La beneficenza – ha detto il numero uno di Unicredit – è uno strumento testimoniale che dimostra che il nostro sistema di valori è complesso e non si riduce al solo fare profitto. Non basta fare asili nido o istituire fondazioni per affermare e soddisfare la responsabilità sociale di un’impresa. Deve essere invece un processo di crescita vero, perché le operazioni di facciata o di mero marketing sociale sono destinate al fallimento e a ritorcersi contro l’impresa che le fa. Progettare responsabilmente nel tempo significa, invece, partire dall’attenzione verso tutti i portatori di interessi, sia all’interno dell’azienda che sul territorio».
I mille dubbi di Profumo hanno trovato una eco perfetta nel sociologo Aldo Bonomi, direttore dell’Aaster (Associazione Agenti per lo Sviluppo del Territorio). Che la responsabilità sociale dell’impresa sia un tema alla moda, è fuori di dubbio. Meno scontata nell’opinione comune è, invece, la consapevolezza che una delega in bianco all’impresa su questo argomento sia un errore grave. La responsabilità, per il sociologo milanese, è una partita doppia che si gioca da una parte sul riconoscimento che i propri dipendenti sono una risorsa strategica e non una riserva meccanica dell’impresa; dall’altra sul rapporto con il territorio e sui portatori di interessi che subiscono le decisioni dell’impresa. «Nell’epoca post-fordista – ha esordito Bonomi -il dipendente ha un’anima ed è importante per l’impresa sapere qual è la sua visione del mondo. L’impresa deve dialogare con l’anima del dipendente senza comprarla e quindi impostare un nuovo rapporto sindacale. Si introduce una nuova forma di conflitto, che non è più quella tra capitale e lavoro, sulla quale i sindacati sono terribilmente in ritardo».
Profumo e Bonomi concordano sul fatto che un punto di partenza per affermare la responsabilità sociale dell’impresa è fare bene il proprio lavoro. Inoltre, è importante che chi prende le decisioni, che poi impattano sul territorio, si confronti con i vari attori sociali e a tutti i livelli. «Responsabilità sociale – ha continuato Bonomi – non vuol dire fare solo un bilancio sociale standosene chiusi nel proprio ufficio. Quando Profumo ha creato il grande gruppo bancario, di cui è amministratore, ha dovuto decapitare interi consigli di amministrazione presenti nei vari territori. Io gli ho detto che poi doveva andare a metterci la faccia su quei territori e spiegare che questa nuova forma di conflitto aveva a che fare con la globalizzazione: creare un grande gruppo bancario serviva a competere meglio sul mercato. Insomma l’oggetto dello scambio doveva essere chiaro». 

Parlare di responsabilità sociale dell’impresa in tempi di globalizzazione, di dumping sociale sfrenato e di crisi dei meccanismi di rappresentanza, è questione complessa anche per due personaggi di altissimo livello, come Bonomi e Profumo.
Siamo molto lontani, e non solo fisicamente, dai cinesi, che oggi si chiedono come saranno posizionati sul mercato nel 2050. Siamo lontani dalla cultura anglosassone che ha fatto della gestione delle risorse umane un elemento strategico del proprio sistema. Secondo l’amministratore delegato di Unicredit, non possiamo competere sui costi, perché ci sarà sempre una Cina, un’India, una Corea che ci darà filo da torcere. Possiamo competere solo valorizzando gli elementi soft di cui siamo in possesso: il gusto, le competenze, il know-how. Perciò diventano fondamentali istruzione e formazione.
Per Bonomi sono due le risposte alla globalizzazione: fare sistema paese e capitalismo coalizionale. «Bisogna mettere insieme le reti delle autonomie funzionali- ha concluso il sociologo – e mettere sul mercato le infrastrutture nodali, cercando di fare sistema a tutti i livelli: università, imprese e banche devono essere gli attori della competizione. La provincia di Varese, ad esempio, si è isolata ed è stata tagliata fuori dall’asse industriale Milano, Bergamo, Brescia. È vero che oggi si vive di locale, ma di solo locale si muore».

 

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Pubblicato il 22 Settembre 2004
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