Da soldato a mendicante
La storia di Sem, che chiede la carità davanti ad un ufficio pubblico. Dieci anni fa partecipò all'ultimo capitolo delle guerre jugoslave nella sua Macedonia. Poi fuggì in Grecia, e da lì in Italia
Una mano tesa, un piattino, una richiesta con voce gentile accompagnata da una benedizione, davanti ad un luogo di grande passaggio, sempre quello, ogni giorno. Un mendicante, uno dei tanti, troppi, che vivono così, circondati dagli opposti sentimenti della pietà e del disprezzo, della solidarietà e del rifiuto.
Sem lo conoscono tutti, dice lui: «Anche la polizia e i carabinieri, anche la telecamera qui sopra», fa accennando al muto arnese che vigila l’accesso di un locale di servizio pubblico, che non nomineremo. «Sto qui, non bevo, non mi drogo, non faccio nulla di male».
Sem è straniero, e si vede a occhio. Non è una faccia di queste parti la sua. «Vengo dalla Macedonia, Skopje» dice. La sua faccia, però, è anche poco macedone: più che i Balcani, ricorda l’India. «Sei rom?» «Sì, ma in famiglia parliamo solo il macedone (molto simile al bulgaro, ndr). Ho lasciato in Macedonia due figli, anni fa. Sono qui a Busto da quattro anni. Chiedo l’elemosina, ogni tanto quando ne ho l’opportunità faccio qualche lavoretto come giardiniere. La mattina sono qui, vengo col pullman della Stie. Nel pomeriggio vado a comperarmi qualcosina da mangiare a Legnano in un supermercato. La notte dormo all’ospedale di Legnano – quello vecchio, non quello nuovo. Per fortuna gli italiani sono generosi e mi aiutano, ogni tanto qualcuno mi trova qualcosa da fare». Sotto i nostri occhi c’è chi gli porta un sacchetto con delle magliette. Fa persino da cambiamonete: sotto i nostri occhi: gli allungano cinque euro, ne rende quattro in moneta a chi deve andare a pagare un vicino parcheggio. Lui, seduto alla turca, non si muove dalla sua posizione e racconta la sua storia, che potrebbe sembrare una leggenda, una delle tante inventate per far contento qualche curioso, e però qualche pezza d’appoggio ce l’ha.
Sem non è il suo vero nome. In patria lo aspettano per fargli la festa, o almeno così dice. Trentacinque anni (ne dimostra di più), Sem ha partecipato nel 2000-2001 al breve capitolo macedone, quello conclusivo per ora, della terribile Guerra dei Dieci anni che ha spazzato l’ex Jugoslavia mandandola in frantumi e disperdendone le popolazioni ai quattro venti. «Quanti c’erano jugoslavi in Italia, prima di guerra? Pochi, nessuno» dice nel suo italiano "alla Boskov", buffo ma a modo suo corretto e comprensibile. «Dopo, tutti via, tutti partiti». Sem era nell’esercito regolare macedone: ci mostra ancora i suoi documenti, le foto che lo ritraggono con altri uomini in divisa khaki verdognola, elmi a padellotto di vecchio modello in testa, fucili d’assalto residuati dei fondi di magazzino della fu Armata Federale jugoslava. «Non so come si dice in italiano il grado, ero Mlađi vodnik (sergente ndr), avevo tre stelle sulle spalline (tre galloni, le stelle sono per i generali…. ndr), comandavo uomini. Ho fatto la guerra, contro gli albanesi». Un conflitto misericordiosamente breve e rientrato, ma che minacciò l’esistenza stessa dello stato macedone, complesso e multietnico: vicinissime alla capitale erano le aree su cui l’UCK, avuta mano libera in Kosovo dopo la resa serba al martellamento aereo della NATO, cercava di estendere il controllo. Difenderle era questione di vita o di morte per il giovane Stato. «Siamo stati in posti diversi, cambiavamo spesso posizione. Guerra breve? Pochi morti? Non pochi, tanti. Sì, in Bosnia è stato molto peggio, forse conosci anche di Vukovar e Dubrovnik, ricordi? Ma ti dico, dove abbiamo combattuto non c’era più una casa sana, come puoi vedere qui. Dovunque, segni di proiettili e bombe». Racconta sommariamente di morti, tanti morti, civili e soldati: di villaggi quasi spariti in poche ore di scontri feroci con arm automatiche e mortai. «Ho perso anche degli amici. Ora è più tranquillo, mi dicono, ma non c’è molta libertà. Spero torni la pace, perchè in guerra pagano i civili che non c’entrano nulla. Li vedi, sono lì, e vecchi, e donne, e bambini, eppure ti sparano, c’è chi ti spara, non vedi da dove. E rispondi». E loro, in mezzo.
In quello stesso 2001, finita da poco la fase "calda" del conflitto, Sem pensò bene di cambiare aria, percependo dell’ostilità da parte albanese. «C’era gente tra loro in quel periodo che entrava nelle case ad armi spianate» (qui interpretiamo la sua gestualità ndr), «e davano due scelte: o lasciavi un figlio da arruolare, o davi dei soldi per la causa. Altrimenti, ti sparavano. Poi, come comanda qui in Italia l’America, comandava anche lì in Macedonia. Le armi dell’UCK che trovammo, erano tutte americane, nuove. Poi loro erano addestrati molto meglio di noi regolari». Sem lasciò Skopje nel 2001 e passò in Grecia. «Da lì rischiai, e mi imbarcai per Ancona. In Italia ho trovato vita difficile ma brava gente, generosa. Sono qui. E adesso da un mese non sento la famiglia: le schede telefoniche costano, mangiare costa, anche risparmiare dieci euro non è facile. Prometti che non fai il mio nome, vero?». Sem ha ancora paura degli albanesi, dieci anni dopo. A quanto dice, al suo paese roma e albanesi non si possono vedere, Con i serbi invece i rom vanno d’accordo, e per i tempi di Tito, che ormai solo le persone in età matura ricordano, c’è discreta nostalgia.
Intorno, alla solidarietà di alcuni corrisponde il freddo disgusto di altri. «Comodo così, senza lavorare» fa una donna arricciando il naso. «Mi metterei lì anch’io così, lasciam perdere che è meglio. Quello che tira su lui in una giornata, io non lo so se lo metto insieme lavorando». A quanto sembra, di questi tempi persino elemosinare può diventare un lavoro da invidiare.
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