“Sui frontalieri propaganda e finte rivoluzioni”

Politica ed economia sono consapevoli dell'importanza dei lavoratori italiani ma sul frontalierato si continua "a spararle grosse". Il Ticino prenda esempio da Ginevra

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Pubblichiamo un interessante intervento di Marcello Signorelli a commento del voto in Ticino sui frontalieri e più in generale sui rapporti tra territori di confine e sulle possibili soluzioni per risolvere le problematiche che interessano il mercato del lavoro ticinese.

Direttore,

il dibattito che, come era ampiamente prevedibile, si è acceso dopo il risultato del voto referendario di ieri in Canton Ticino (“Prima i nostri”) ha avuto solo sul Tuo quotidiano il pacato e riflessivo approccio che meritava. La stampa, anche quella nazionale, ha di nuovo equivocato così come si sono lasciati andare a dichiarazioni astruse un ministro (Gentiloni), un Governatore (Maroni) e un’eurodeputata (Comi). La tensione italo-svizzera o, se si preferisce localizzarla, lombardo-ticinese è già abbastanza alta dai tempi di Giulio Tremonti e dei suoi spettacolari ma inutili fiscovelox piazzati alle frontiere. Perché esacerbare ancora di più gli animi, perché incutere immotivato timore e angoscia nei frontalieri? Consentimi pertanto qualche riflessione in proposito.

Sia la politica così come l’economia ticinese sono consapevoli che senza lavoro frontaliero l’industria, il commercio, i servizi nel vicino Cantone subirebbero contraccolpi più o meno rilevanti. Secondo: il frontalierato non è solo un problema “nostro” in quanto italiani ma investe l’area francofona (con lavoratori che, dalla Francia, raggiungono quotidianamente sedi di lavoro soprattutto nei Cantoni di Ginevra e Neuchâtel) e persino quella di lingua tedesca: recarsi negli ospedali di Basilea o Zurigo e contare quanti sono i tedeschi provenienti dalla Germania che svolgono mansioni anche specialistiche. Terzo: il referendum di ieri non ha chiuso le porte agli italiani, come titolava stamane (e cito il primo quotidiano nazionale che ho sotto gli occhi) “Il Messaggero” di Roma, né il voto ha rappresentato (titolo a pagina 5 del medesimo quotidiano) un sentimento “anti-italiano”. Se ci si prende del tempo per leggere il testo del progetto che è andato in votazione, si scoprirebbe che quel prima i nostri si riferisce ai residenti nel Cantone, che siano svizzeri o meno (articoli 4, 14 comma b e j, 50 sub 2).

Quarto: il voto non avrà alcun valore, oltre a quello politico, se non sarà tradotto in un provvedimento legislativo. Norma che non potrà prescindere dalla regolamentazione che a livello Confederale si va faticosamente componendo dopo il l’esito del referendum del 9 febbraio 2014 contro l’immigrazione “di massa” e approvato da popolo e Cantoni. La scorsa settimana la Camera Bassa del Parlamento elvetico (il Consiglio Nazionale) ha trovato a stretta maggioranza una prima “quadra” introducendo l’ applicazione light, cioè soft, del mandato referendario di due anni e mezzo fa. Il percorso non è ancora completo perché dovrà esprimersi ancora il Consiglio degli Stati, il Senato svizzero. Quindi calma e gesso. A Berna hanno il terrore folle di essere messi nell’angolo dall’Unione europea. Sono troppi gli interessi che spingono perché il sottile filo che lega ancora la Confederazione a Bruxelles non venga spezzato: perché se cadessero gli accordi Bilaterali Svizzera-UE, per la Confederazione si aprirebbero le porte di una lunga e difficile contrattazione Stato per Stato su diversi temi. Circolazione delle persone in primis.

Morale? Morale la propaganda continuerà a spararle grosse sul frontalierato. Ci sarà certamente qualche “stretta” giusto per gettare un po’ di fumo negli occhi ai più esasperati fautori dell’indigenismo elvetico, ma le rivoluzioni resteranno nel cassetto. D’altra parte continuo a ripetere a molti amici ticinesi che il frontaliere non è un matto che la mattina si sveglia e si presenta al sciur padrun da li beli braghe bianche in Ticino e gli dice: “Sono venuto qui a lavorare”. Il frontaliere è un dipendente anche molto qualificato professionalmente che viene ricercato e chiamato dall’imprenditore svizzero. Il motivo lo conosciamo tutti. Abbia allora il coraggio la politica ticinese di ricalcare i passi compiuti cinque anni fa dai colleghi di Ginevra: enti e società partecipate dal Cantone hanno l’obbligo di segnalare la ricerca di personale ad un apposito ufficio ma, soprattutto, di specificare quali carenze di formazione professionale inducono all’assunzione di un frontaliere francese anziché di un residente. Su questa strada, del tutto spontaneamente, a Ginevra si stanno orientando anche diverse società private.  E l’Unione europea ha mai avuto alcunché da ridire.

Chiudo con una provocazione: come reagiremmo noi, in un’ipotetica Lombardia felix bancomat del lavoro d’oltrefrontiera, se ogni mattina fra le province di Varese e Como giungessero 60 mila ticinesi per lavorare nelle nostre aziende, nei nostri negozi, nei nostri uffici?

 

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Pubblicato il 27 Settembre 2016
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