L’etica in economia si prende cura della casa comune

Ci sono molti imprenditori, «egoisti difettosi», che questa scelta l'hanno già fatta. Alla Liuc si è discusso di cambiamento e di "Storie di ordinaria economia"

Economia generiche

«Se getti semi nel vento, coltivi giardini nel cielo». Scegliere il bene comune è sempre una scelta consapevole. E anche quando sembra, appunto, priva di senso c’è sempre qualcuno pronto a coglierla e a farla fruttare. La Business School dell’università Liuc, per il secondo anno, propone “Storie di ordinaria economia” 4 giornate da maggio a dicembre per conoscere e lavorare con quelle imprese che hanno scelto un percorso etico in grado di coniugare il valore economico con quello sociale e ambientale. Un percorso pensato e diretto da Massimo Folador, docente di business ethics all’ateneo di Castellanza, e autore del libro “Storie di ordinaria economia” (Guerini Next).

«A Taranto ho imparato che la radice ethos – ha detto Massimo Folador durante la presentazione del corso – non significa solo tendere al bene, ma in una accezione ancora più antica vuol dire: casa comune. E quando entri  in un’impresa ti rendi subito conto in che casa stai entrando». Le persone che si prendono cura della casa comune sono di fatto degli «egoisti difettosi» e alla tavola rotonda sul tema, moderata dal giornalista Gianfranco Fabi, ce n’erano almeno cinque. Uno di questi è Ali Reza Arabnia, presidente e amministratore delegato di Geico Taikisha spa, imprenditore di successo di origine iraniana che ha fatto della sua azienda, gioiello dell’automotive, un vero modello di “casa comune“. «Stiamo vivendo un momento brutto – ha sottolineato l’imprenditore – dove c’è poca attenzione verso gli altri. Questo è dovuto alla mancanza di sicurezza e creare un ambiente di lavoro dove prevale la responsabilità verso gli altri, la comprensione e la gentilezza è difficile. Ma credo che sia un dovere morale delle imprese mandare la sera a casa persone serene, solo così si può creare serenità».

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nella foto da sinistra Ali Reza Arabnia e Andrea Giussani

Il bene comune guarda ben oltre, nel tempo e nello spazio, a differenza di quei capi brutali o di quei manager che ancora prima di iniziare hanno già in mente la strategia di uscita. Sono altre logiche, di breve periodo. Alla Geiko, durante il periodo più buio della crisi quando telefoni ed email erano muti e gli ordinativi erano scomparsi, non hanno licenziato nessuno. Tutti si sono presi cura della loro casa, rendendola ancora più accogliente. «Con i nostri mezzi potevamo resistere due anni – ha spiegato Arabnia – e ci siamo dati un obiettivo. Abbiamo investito in un centro di ricerca all’avanguardia ma anche sul nostro benessere personale». L’epilogo dell’azienda di Cinisello Balsamo è stato positivo, obiettivo raggiunto addirittura con tre mesi di anticipo.

Viviamo in contesti paradossali e spesso l’unica scelta che ha un senso per riportare un equilibrio accettabile è proprio il bene comune. «In questa società – ha detto Andrea Giussani, presidente volontario del Banco Alimentare – c’è chi ha troppo da mangiare e chi non ha nulla. Noi diamo supporto a un milione e mezzo di persone in povertà ma non ci appelliamo alla benevolenza, ma induciamo l’industria alimentare a orientare i suoi processi al bene comune. Le 91mila tonnellate di cibo che noi distribuiamo non sono scarti o resti. In quest’ottica bene comune vuol dire vantaggi per entrambi, per chi dà e per chi riceve».

Il bene comune non è dunque un gadget e tantomeno un vestito che si indossa alla bisogna, ma un percorso consapevole, fatto di visione di lungo periodo e scelte coerenti, in grado di generare un vantaggio competitivo. In questo percorso il decisore pubblico puo’ fare molto. «Le società Benefit – ha affermato l’onorevole Mauro Del Barba, estensore della legge relativa a queste società – sono lo strumento che gli imprenditori hanno per dar vita al cambiamento. Non aspettiamoci benefici concreti dalla politica, quanto piuttosto dei vantaggi reputazionali che per l’impresa fanno la differenza competitiva. In Italia abbiamo tante belle aziende, ma c’è il problema che ciascun imprenditore è geloso della propria specialità. La formula della società Benefit ha la funzione di blindare e valorizzare i comportamenti virtuosi evitandone la dispersione in caso di successione o passaggio di mano. La responsabilità sociale d’impresa non basta più, non è più sufficiente un documento che viene affiancato alla scatola nera dei conti. Occorre creare nuove regole per competere».

Banche e finanza, negli ultimi dieci anni, non sono stati esempi virtuosi in tema di bene comune e responsabilità sociale. Ci sono però alcuni istituti bancari che hanno avviato un percorso interessante, dove etica, casa e bene comune distinguono l’identità del loro business. «Noi siamo specializzati nel credito al mondo non profit e al terzo settore – ha concluso Marco Ratti di Banca Prossima del gruppo Intesa SanPaolo – perché era evidente che quel settore non aveva un accesso al credito adeguato. Credo che se parliamo di bene comune, il terzo settore lo generi per vocazione. Ci sono però dei limiti, come il fatto che non sia scalabile all’infinito, perché la maggior parte del non profit è locale, ma questa è la sua caratteristica più interessante, perché definisce la singola comunità. Credo che ogni impresa abbia la sua via al bene comune».

Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it

Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.

Pubblicato il 29 Marzo 2019
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