Terra di leggende il regno delle bocce. Cazzaniga il mite

La vendetta è un piatto che si serve freddo, meglio se durante una partita di bocce

Bocce varie

La zona di Città Studi, alle spalle delle facoltà di Chimica Industriale, di Medicina e di Geologia, prospiciente allo stadio Giuriati, tempio antico del rugby, era costellata da una serie di campi di calcio brulli, dove l’erba era fuggita, rifugiandosi chissà dove, causa il continuo calpestio delle scarpe con i tacchetti, rigorosamente a vite, come s’usava qualche lustro fa.
Su uno di questi – era l’Half, il Nordhal, il Città Studi: difficile dirlo -, l’angusto spogliatoio negletto in un angolo, si stava disputando un’accanita partita fra due selezioni di facoltà nell’ambito del campionato universitario. Faceva un freddo becco, dalle bocche dei contendenti uscivano refoli di vapor acqueo, ma l’agonismo, connesso con le scontate rivalità fra i diversi indirizzi di studi, riusciva ad attenuare qualsiasi sensazione climatica sfavorevole, eccetto che in uno dei giocatori: il Publio Cazzaniga. Portava una specie di calzamaglia nera sotto i calzoncini bianchi, un maglione a collo alto sotto la maglia verde, i guanti e, dulcis in fundo, una berretta di lana a cerchi azzurri e neri – era interista convinto! -: sembrava più che un giocatore di calcio un esploratore di ghiacci polari, piovuto per caso a Milano su un campo di periferia.
Non era un campione sicuramente, era un modesto pedatore di centrocampo, se la cavava, ma non era il perno della compagine: gli piaceva, però, l’atmosfera, quella specie di aura giovane, goliardica, con le battute spiritose, il senso di appartenere a un gruppo, i suoi amici, i suoi compagni d’università con i quali condividere lo sport, le avventure, forse l’attimo di una giovinezza spensierata quel tanto di concesso dalla serietà degli studi. Gli esami, la laurea, la dispersione. La squadra di calcio aveva subito la diaspora, ognuno ad ubbidire al richiamo dell’esistenza, a rincorrere esperienze e risultati professionali.
Fu così che Publio lasciò, pur con qualche rimpianto, il calcio e cominciò quasi per caso, dato che gravitava professionalmente alla Bicocca a due passi da Sesto San Giovanni, sede di numerose bocciofile, a farsi gradualmente attirare dalle bocce, anche per seguire uno dei colleghi di lavoro, con il quale aveva un rapporto che valicava i cancelli della fabbrica e del laboratorio chimico, fanatico di questo sport tanto da riuscire a trascinarlo con sé e a trasmettergli una sana passione.
Anche in questo caso non era un campione, tuttavia accostava abbastanza bene, era sempre di poche parole e molto concentrato, rappresentava il compagno di coppia quasi ideale.
Naturalmente nel fine settimana era scontato dedicare qualche ora agli allenamenti e lì, nel bocciodromo dell’Anpi, limitrofo alle Officine Falck, allargò la sua sfera di conoscenze che gli offrivano motivi di sincero compiacimento per la ricchezza di rapporti umani dai quali poteva abbondantemente attingere.
Non proprio tutti in verità, perché lì all’Anpi razzolava un certo Alfonso, un omone grossolano non solo nei tratti, ma soprattutto nei comportamenti, che cominciò a farne bersaglio delle sue battute da caserma. Era partito con il nome: “Publio, ma che razza di nome è? Chi è stato il genio a chiamarti così, la madre o il padre?” E lui paziente a spiegare: “Mio padre amava molto il poeta latino Publio Ovidio Nasone, quindi gli parve molto bello che la mia nascita fosse per loro un inno alla poesia della vita e convenne con mia madre di chiamarmi Publio, che per me è un gran bel nome!” Al che l’Alfonso: “Ah, di sicuro per quanto riguarda il naso è azzeccato! Nasone, proprio una bella bistecca hai sulla faccia!” E giù una risata sguaiata.
Ma la persecuzione non si fermava qui: ce l’aveva anche con i capelli della vittima ormai sacrificale: “Dì un po’ fenomeno, come fai a nasconderti la pelata? Ti fai crescere quelli di lato per tirarteli fino all’altra parte, così con quei quattro peli pensi di nasconderla? Ma fammi il piacere, pelato sei, altro che storie!” E altra omerica risata.
Alternativamente partiva con l’attacco al cognome: “Uei Cazzaniga cosa hai mangiato oggi col pane: mannaggia non mi viene la rima, eppure so che c’è, mi aiuti per piacere?” E giù una serie di risate. Il Cazzaniga era sempre stato un mite e anche in questi frangenti evitava di replicare con adeguate espressioni. Gli giravano per la testa una serie di argomentazioni atte a mettere in ridicolo l’Alfonso, ma poi nei momenti topici si richiudeva come un riccio su sé stesso e lasciava perdere.
Aveva cominciato ad avere con sé una misteriosa bottiglietta colma di liquido: ogni tanto la prendeva, la rigirava, la guardava con fare interrogativo, poi la riponeva nella sacca, salva farla riemergere ogni volta che i lazzi diventavano particolarmente insistenti. Capitò che all’Anpi venne disputata una gara regionale a coppie, Publio era con il suo abituale mentore, mentre l’Alfonso giocava con un loro comune amico. La gara era domenicale, perciò tutto si sarebbe concluso in giornata.
Ora, mentre il suo aguzzino veniva eliminato quasi subito, il Cazzaniga era andato avanti e ormai stava disputando il suo quarto di finale con alterna fortuna. Purtroppo verso la fine comparve l’Alfonso, che, un po’ roso dall’invidia che l’altro fosse arrivato nei primi otto finalisti, un po’ perché non poteva evitare di seviziarlo, cominciò ad apostrofarlo con le solite tiritere. Publio, innervosito, cominciò a sbagliare, tanto da farsi eliminare. Uscì dal campo furioso, mise le mani nella sacca, estrasse la misteriosa bottiglietta, si avvicinò alle spalle dell’Alfonso e nella tasca posteriore mezza stracciata ne versò l’intero contenuto. L’altro lanciò un urlo, poi: “Ma guarda sto deficiente, cosa ti viene in mente di bagnarmi di acqua i pantaloni! Fino alle mutande mi ha lavato! Vai tranquillo che te la faccio pagare!” Publio mise via le sue cose, un sorriso malizioso gl’increspò le labbra, poi se ne andò.
L’Alfonso volle dimostrare di essere superiore, ma non appena il liquido prese ad asciugare, cominciò a sentire tirare da tutte le parti, non riusciva a capire, i peli si strappavano e sentiva un male terribile, non sapeva come fare, quale rimedio attuare, alla fine un misericordioso chiamò un taxi per farlo portare a casa, ma, una volta arrivato dinanzi all’ingresso, l’attendeva un’altra impresa: l’ascesa fino al terzo piano in uno stabile senza ascensore, come Purgatorio Dantesco lungo la collina dell’espiazione. Il Cazzaniga continuava a sorridere, soddisfatto di aver scovato il coraggio per l’azione. Gli aveva versato nella tasca uno sciroppo concentrato di zucchero che, seccandosi, aveva formato un blocco tenace: la vendetta era stata finalmente compiuta!

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Pubblicato il 22 Novembre 2020
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