“Scrittori da strada” e farfalle toscane
di Fernando De Maria
Negli anni ’50, alle elementari di Masnago, il maestro Giovanni Mainardi, era solito leggere il tema migliore svolto dagli alunni. Figlio di professori, era un certo Gianmaria Caprotti, a staccarsi dalla normalità di noi compagni di classe. I suoi componimenti, garbatamenti ornati di parole difficili (un giorno definì “scialbo” il sole invernale), parevano uscire da un computer in cui si rincorrevano intelligenza e preparazione.
Gianmaria era un ragazzo educato per cui, nessuno dei compagni, provava nei suoi confronti il minimo senso di invidia. Il maestro andava fiero di quel ragazzino sopra le righe e trovava sempre il modo di invitarci ad essere semplici, buoni e bravi come lui.
«Se vorrete un giorno essere come lui – diceva – scrivete, scrivete sempre. A sera, prima di coricarvi passate in rassegna mentalmente i fatti del giorno e cercate di mettere giù quello che più vi ha colpito. Inizialmente sbaglierete e nei vostri scritti ci sarà molta confusione. Col tempo, sono sicuro che migliorerete e sarà la vita stessa a dirvi dove avrete sbagliato». Da allora – sono trascorsi più di 60 anni – cercai di mettere in pratica quel consiglio. Spesso mi sono vergognato di mettere a nudo la mia anima; ho capito però che, se non facciamo del male, nulla può calpestare la verità che è dentro di noi. Uno degli aspetti di quel consiglio lo ritrovo ogni fine anno, quando cerco in un miserabile diario i momenti che vorrei salvare.
Fra i ricordi del 2018 c’era Il saluto ad un infermiere dell’ospedale del Ponte.
FARFALLE TOSCANE
Il 9 giugno 2018, due necrologie hanno dato notizia della scomparsa di Renzo Giusti. Conobbi quest’uomo sul finire degli anni 80’, quando, per una serie di interventi, fui ricoverato all’ospedale “Del Ponte”. Renzo era un infermiere della “Chirurgia”, reparto in cui operavano allora luminari che rispondevano al nome di Gatta, Bisotti, Postiglione, Brebbia, Meinardi, Bernasconi, Corti, Bordone, Lo Giudice e Limonta. Quando varchiamo l’ingresso di un ospedale è il timore della sofferenza ad aprirci la strada: una paura che non avvolge solo noi, ma anche le persone che ci accompagnano.
Più che un semplice infermiere, Renzo era un angelo. Una di quelle creature che sembrano nate per assistere e confortare.
I colleghi lo chiamavano “Toscano” per l’accento che poneva nella voce. Era un uomo non molto alto, aveva i capelli neri e la carnagione scura. Sul volto, perenne, era impresso uno di quei sorrisi infantili che esprimono fiducia. Le sue notti erano un continuo andirivieni dalla sala medica alle camerette dove, spesso, avvampati dalla febbre si lamentavano i pazienti operati. Nella penombra, Renzo si muoveva come una farfalla, rinfrescando le labbra, asciugando il sudore e riordinando le coperte. Lo sentivi anche parlare. Con quel suo accento inconfondibile dava a tutti del tu, con una confidenza intrisa di dolcezza e partecipazione al dolore. Ora Renzo Giusti se n’è andato e il dolore pare essersi trasferito in quanti conobbero la figura di questa creatura. I grandi uomini se ne vanno, accompagnati da grandi discorsi. Per le persone sconosciute, quelle che vivono e muoiono in silenzio, c’è soltanto una lacrima che, ini fondo al cuore, avvolgerà nel tempo il loro ricordo.
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