Lo zio non “comandò“ al nipote l’estorsione a Besozzo col suo cellulare: assolto per non aver commesso il fatto
Il Collegio ha creduto allo stesso ragazzo che in aula aveva ammesso di aver utilizzato lo smartphone dello zio per mandare messaggi minatori ad un coetaneo derubato

Sono quelle storie che ad ascoltarle non ci si crede, un po’ per il racconto degli stessi interpreti che tendono sovente a scagionare o a scagionarsi (fatto abbastanza frequente nei processi penali); un po’ per le frasi invocate e la conseguente convinzione profusa dagli stessi difensori, anche in questo caso fatto comune, se non la sincerità dei toni: «Guardate che il mio assistito non c’entra niente».
La storia è pazzesca, e l’abbiamo raccontata nelle cronache d’aula: due ragazzini minori prendono di mira un coetaneo a Besozzo qualche anno fa, lo rapinano (anche del cellulare), e poi lo contattano su Instagram (a cui il rapinato accede da pc) per la proposta: «Ci dai i soldi e ti facciamo riavere il telefonino».
Il punto è che quella proposta venne fatta col telefono dello zio di uno dei due ragazzi, persona incensurata e di specchiata moralità, lavoratore di quelli che la sera dormono per che si devono svegliare all’alba e che non sentono – mentre dormono – se qualcuno gli fruga nelle tasche dei pantaloni o si appropria sul comodino dello smartphone. Ma, alla luce delle indagini delle forze dell’ordine, pure lo zio è finito nel processo, naturalmente quale “ispiratore” dell’atto criminale. Difeso dall’avvocato Oskar Canzoneri, l’uomo è stato assolto dal Collegio con la formula piena che ha certificato all’imputato di “non aver commesso il fatto”.
Per i due ragazzi imputati dinanzi al Tribunale per i minorenni di Milano invece il procedimento penale a loro carico è legato alla “messa alla prova“, istituto nato appositamente nelle pieghe del processo minorile che è finalizzato all’estinzione del reato e al recupero del soggetto, per reintrodurlo nella vita civile.
Il nipote ascoltato in aula durante il processo che vedeva lo zio imputato, aveva spiegato la tecnica utilizzata per portare a termine l’estorsione servendosi del telefono del parente: un gioco di “screenshot“ inviati alla vittima, che ha denunciato tutto ai carabinieri facendo scattare l’azione penale.
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