“Quando ho messo piede all’ospedale in Fiera volevo scappare”
Sveva Luraschi è una dei sanitari inviati in missione a Milano. Racconta le sue emozioni dopo una settimana di lavoro. "I miei passi sono più sicuri ora, le mie mani più ferme, le mie orecchie più attente e anche il ritmico pompare del mio cuore sembra essersi calmato il giusto"

Quando ho messo piede all’ospedale in Fiera, ormai una settimana fa, volevo scappare.
Mi mancava l’aria, mi sentivo un pesce fuor d’acqua e avevo nostalgia di casa.
Mi mancava la mia famiglia, gli amici, i miei colleghi, le finestre del mio reparto, con il cielo e le piante di melograno.
Mi sentivo lontana da tutto ciò che per me è sicuro, familiare, conosciuto.
La Fiera è un bunker, lì la luce del sole non entra e il rumore assordante degli ingranaggi della struttura non dà tregua alle orecchie nemmeno per un secondo. Ma in mezzo al caos, in mezzo agli allarmi del tutto nuovi di monitor e ventilatori, sopra la paura, l’incertezza e il suono martellante che sempre mi accompagna, il battito concitato del mio cuore, ho imparato a distinguerne altri di rumori.
Ho imparato a distinguere i passi svelti degli infermieri, le mani veloci e sicure degli anestesisti, i respiri lenti e misurati di chi cura e chi è curato.
Ho conosciuto infermieri e medici provenienti da ogni dove, Policlinico, Niguarda, Legnano, Desio, Vimercate.. anche se, il più delle volte, riuscivo a vederne solo gli occhi.. ho avuto di nuovo il piacere di lavorare fianco a fianco ai colleghi di Monza.. ho imparato a riconoscere sguardi, colori e caratteristiche di questi compagni con cui mi sono ritrovata catapultata in questa avventura.
I miei passi sono più sicuri ora, le mie mani più ferme, le mie orecchie più attente e anche il ritmico pompare del mio cuore sembra essersi calmato il giusto.
Tanto che domani,
quando toccherà a noi,
quando finalmente apriremo le porte di questo strano, assurdo, essenziale reparto,
tirato su con le sole nostre forze,
saprò esattamente cosa fare
e mi sentirò un po’ come a casa.
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