Liuc, 25 anni vissuti da startup

Per celebrare l'anniversario l'università ha pubblicato un libro dove vengono raccontati 25 casi imprenditoriali di ex studenti. Nell'intervista il rettore Federico Visconti spiega il significato di questa scelta

federico visconti

Spesso le azioni precedono le parole. Quando 25 anni fa l’Unione degli industriali decise di fondare l’università Liuc, la parola startup  non solo non era in voga come oggi, ma non racchiudeva quel significato epocale di nuova frontiera economica che ha assunto ai giorni nostri. Un salto semantico favorito dalla spinta della rete, dal web, dalla connettività intesa come struttura in grado di creare una nuova cultura, anche imprenditoriale.

Per i suoi primi 25 anni di vita l’università Liuc ha deciso di pubblicare un libro dal titolo  “Startup! 25 anni di Università e impresa” (Guerini Next) dove il punto esclamativo mette al riparo gli autori – è un libro scritto a più mani – da interpretazioni troppo letterali. Venticinque casi e altrettante storie imprenditoriali, alcune già consolidate, altre in fase di sviluppo, che hanno per protagonisti imprenditori che hanno studiato nell’ateneo di Castellanza, una fabbrica della conoscenza ma al tempo stesso luogo del fare perché pensato e frequentato da imprenditori.

Il rettore Federico Visconti, che si definisce un aziendalista più che un economista, oltre ad amare le classiche fonderie non gradisce le definizioni alla moda e tantomeno gli eventi celebrativi classici.

Visconti, è per questo che avete scelto di pubblicare un libro partendo dalle “speranze” imprenditoriali?
«Far parlare i nostri giovani che hanno creato un’impresa è tutto tranne che una celebrazione nel senso classico del termine. Io avevo in mente un libro sulla falsariga di quello che fece Fabio Magrino con “I nuovi imprenditori” nel 1984, dove analizzava venti storie imprenditoriali innovative. E così abbiamo coinvolto venticinque professori, non solo aziendalisti ma di varie discipline, che raccontano altrettanti casi imprenditoriali».

Il titolo “Startup!”, seppure con un punto esclamativo, evoca un modello di impresa innovativa e tecnologicamente avanzata. In che cosa la Liuc si può considerare una startup?
«La Liuc è una casa per l’imprenditorialità con un format didattico innovativo, in grado di coinvolgere professori di ruolo, manager, professionisti e testimonial. Ha una storia originale, cioè è un’università che nasce dalle imprese per le imprese. È connessa in modo forte con il territorio, coltiva un rapporto diretto con le scuole superiori, aspetto fondamentale per intercettare i bisogni partendo dal basso. Nella Liuc si respira un clima, c’è un humus particolare. È un piglio che nasce dalle relazioni e i nostri studenti che sono diventati imprenditori sono felici di risentire i loro professori per confrontarsi sul percorso fatto. Nel libro cerchiamo proprio di cogliere questa dimensione»

Che cosa pensa del fenomeno startup e del dibattito che si è sviluppato intorno alla nuova imprenditorialità?
«
Riconosco che il tema merita un approfondimento. Recentemente il “Financial times” si è posto il problema con una domanda suggestiva: come mai gli unicorni sono solo quindici? E come mai la Sec, la borsa americana, si interroga sui criteri di valutazione delle startup? Sono tutti ragionamenti fatti anche all’inizio degli anni duemila quando si dovevano valutare le dot-com. A questo proposito ricordo un efficace scritto di Claudio Dematté in cui diceva che ci eravamo sbagliati tutti: i consiglieri di amministrazione, i professori, le società di revisione, la borsa, le authorities. Credo che oggi, continuando a enfatizzare il modello della Silicon Valley e delle sue startup, corriamo lo stesso rischio di allora. Quello non è il nostro modello».

Ma tra la Silicon Valley, dove si finanziano le buone idee, anche quelle che poi si rivelano fallimentari, e l’Italia, dove i capitali di rischio per le startup sono quasi inesistenti, ci sarà una via di mezzo? Ricordo che proprio la professoressa Anna Gervasoni, qui alla Liuc, aveva presentato una interessante ricerca sul venture capital dove si mostrava che L’Italia in tema di finanziamento alle nuove imprese innovative aveva numeri ridicoli rispetto non solo alla California ma al resto d’Europa.
«Il tema della finanza per le startup va rivisto ed è altrettanto vero che l’Italia non ha quel tipo di capitalismo. Non è un caso che tra i relatori nella giornata di presentazione del libro c’è anche il professor Innocenzo Cipolletta, presidente di Aifi (Associazione Italiana del private equity e venture capital, ndr), un testimone autorevole che ci può dire come sta evolvendo la finanza per la piccola e media impresa italiana».

Sulla residualità del venture capital, quanto conta il fatto che in Italia, per retaggi culturali e religiosi, il fallimento viene vissuto ancora come una colpa e non come un semplice tentativo andato male ma che potrebbe avere anche ricadute tecnologiche interessanti per il sistema?
«Conta molto e lo spiega il presidente della Liuc, Michele Graglia, nella sua introduzione al libro. Nelle condizioni in cui siamo oggi credo che si debba essere più tolleranti nei confronti dell’errore. Mentre negli anni della grande crescita il fallito spesso era un truffaldino, oggi il fallimento è spesso dovuto alla mancanza di coerenza del progetto imprenditoriale».

Da cosa dipende la ripartenza?
«Il problema della ripartenza sono le idee e nel suo piccolo questo libro è un repertorio di idee, qualcuna anche abbastanza consistente. Però oltre alle idee ci vogliono i soldi che in Italia non mancano ma non vengono immessi nel circuito dell’economia reale, per andare invece ad alimentare un sistema finanziario che è autoreferenziale e che solo indirettamente si scarica su questi progetti. Negli Usa ci sono i grandi fondi che destinano una percentuale delle risorse alle startup della Silicon Valley e alle nuove imprese, ma in Italia non vedo un grande gruppo bancario che finanzia questi progetti. Nelle imprese il tema della finanza e delle sue ricadute sul sistema dell’economia reale è comunque ben presente. Ma ancor prima che essere un tema economico direi che è culturale in senso lato».

Se il tema è culturale, allora è compito di un’università affrontarlo e svilupparlo.
«Recentemente sul “Corriere della Sera” il manager Andrea Guerra affermava che abbiamo bisogno di una nuova generazione imprenditoriale, perché si è svecchiata prima la politica che non le imprese italiane. Penso che la Liuc in questi 25 anni abbia dato un bel contributo nel portare nelle imprese idee, stimoli e competenze manageriali nuove. Se un nostro ingegnere di 25 anni ha imparato il metodo Lean e poi è andato a lavorare in una piccola azienda di Busto Arsizio, porterà con sé quel contributo manageriale. L’ecosistema funziona quando è in grado di portare idee e competenze, in un sistema carsico, nel tessuto esistente».

Lo svecchiamento del sistema imprenditoriale è importante ma spesso è il contesto istituzionale la vera palla al piede per l’imprenditore.
«È importante distinguere la cultura dello sviluppo da quella del controllo, sono due cose diverse e ragionare in funzione di approvazioni è una cosa massacrante, soprattutto per chi fa impresa. Questo è un Paese che si chiude a riccio e alla fine le persone non decidono ma scelgono di rimanere ferme. Se vogliamo che le nuove imprese decidano di assumere, dobbiamo liberare le persone dall’ansia del controllo».

Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it

Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.

Pubblicato il 30 Aprile 2016
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