Segregata e picchiata, le era proibito vedere il figlio neonato
La giovane viveva in un ambiente ultratradizionalista e doveva soddisfare le richieste di tutti i familiari oltre che del marito. Nessuna pietà neanche nei periodi in cui era incinta

Emergono particolari agghiaccianti sulla vita quotidiana vissuta per 4 anni dalla giovane pakistana segregata e maltrattata dal marito, suo connazionale, e dall’intero nucleo familiare. La vicenda ha portato all’arresto dell’intero nucleo familiare del marito su ordine della Dda di Milano ed eseguito dai carabinieri di Busto Arsizio con l’accusa di riduzione in schiavitù.
La costringevano ad alzarsi tutti i giorni alle 6 di mattina per provvedere ai bisogni di tutta la famiglia: pulire, rassettare la casa, lavare e stirare gli indumenti, preparare i pasti, lavare i piatti. Lo doveva fare e basta, in qualsiasi condizione, anche quando non stava bene, anche quando era incinta. Veniva continuamente minacciata dall’uomo che se si fosse ribellata sarebbe stata disonorata ed emarginata dall’intera comunità pakistana.
In occasione della prima delle due gravidanze, nel 2012, è stata costretta a lavorare per tutto il periodo sino al parto prematuro avvenuto a maggio, al settimo mese di gestazione. Nonostante il parto prematuro con taglio cesareo per lei non c’è stata nessuna pietà al punto che al suo ritorno a casa è stata subito rimessa a lavorare per tutti e non le veniva permesso di vedere il figlio in ospedale, se prima non aveva concluso le faccende domestiche. Il bimbo morirà a soli 5 mesi di vita.
Nel caso della seconda gravidanza che risale al 2015 la donna è stata anche cacciata di casa in piena notte al sesto mese di gravidanza. Anche nutrirsi, dissetarsi e lavarsi durante i mesi di gravidanza era difficile senza il permesso dei suoi carcerieri. Veniva controllata anche quando andava in bagno e la dispensa era sotto chiave impedendole di potersi nutrire autonomamente.
La vittima veniva tenuta segregata in casa. Ogni contatto con il mondo esterno le era proibito, compresa la possibilità di andare a trovare i parenti (padre e due fratelli) che vivevano a poche centinaia di metri di distanza dall’abitazione del marito e che raramente poteva incontrare in casa. Quando veniva lasciata in casa da sola, la porta era chiusa a chiave per evitare che potesse allontanarsi. Solo raramente veniva accompagnata in ospedale per le visite mediche o per andare a trovare il figlio neonato, ricoverato.
Anche le comunicazioni via telefono erano proibite o raramente concesse in “vivavoce”, alla presenza dei parenti del marito, solo alla madre in Pakistan. Le stesse faccende domestiche non potevano essere svolte da lei autonomamente ma doveva chiedere comunque e sempre il permesso. In un caso è stata schiaffeggiata per il solo fatto di aver cucinato una pietanza per tutta la famiglia senza chiederlo prima.
Quando i militari dell’Arma sono entrati nell’abitazione del marito per eseguire gli arresti è emerso che l’uomo, nell’ultimo periodo, si era fatto crescere una lunga barba incolta e aveva ripreso ad indossare gli abiti tradizionali pakistani (nella foto).
Una radicalizzazione nei principi islamici che è emersa proprio confrontando la foto del documento d’identità, risalente a qualche anno addietro, nella quale non portava la barba e vestiva all’occidentale. Prima di essere portato via ha chiesto di poter pregare ma non prima un lungo lavaggio del corpo. La madre dell’uomo, invece, è stata vestita dalla figlia 23enne e si è fatta accompagnare fino all’auto dei carabinieri, accompagnata dalla figlia per evitare qualsiasi contatto con gli uomini.
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