La giovane schiava “liberata” dal fratello
L'avvocato della ragazza pakistana racconta come è emerso il caso di schiavitù a cui ha messo fine la Dda: "Il fratello ha bussato a molte porte fino a quando qualcuno l'ha ascoltato davvero"
L’incubo per la giovane pakistana schiavizzata è finito, ora può stare con la sua bimba nata a novembre e dedicarle tutte le attenzioni di cui ha bisogno.
Laura Satta, l’avvocato che la difende e che l’ha aiutata ad uscire dalle quattro mura dell’appartamento di via Maroncelli, racconta qualche nuovo particolare su come è riuscita ad ottenere l’arresto del marito e della suocera, considerati dalla Dda i principali carcerieri della ragazza: «Un plauso va ai carabinieri della Stazione di Busto Arsizio che si sono attivati velocemente e in maniera impeccabile per far emergere questa brutta storia – racconta – ma vorrei anche sottolineare il ruolo del fratello della giovane che ha bussato a tutte le porte per chiedere aiuto, trovandone anche alcune chiuse».
Secondo l’avvocato non è sbagliato sostenere che la giovane sia stata salvata proprio dal fratello che si è rivolto all’associazione di Gallarate “Vita e Comunità” che poi ha coinvolto il Filo Rosa-Auser: «Per far emergere questa vicenda ha dovuto armarsi di pazienza e sopportazione – spiega il legale – perchè è evidente che le strutture di assistenza sociale e, a volte, anche le stesse forze dell’ordine non sono preparate ad affrontare vicende così complesse».
Emerge, infatti, che i due fratelli della ragazza sono perfettamente integrati e vanno a scuola con buoni risultati nonostante siano loro stessi vittime dei maltrattamenti di un padre che, dopo il secondo matrimonio, li ha sostanzialmente messi fuori di casa.
Entrambi erano consapevoli del fatto che la sorella vivesse come una schiava in casa del marito e che – in buona sostanza – la stessa sarebbe stata costretta a sposarlo con un matrimonio combinato dalle rispettive famiglie: «La ragazza si è ritrovata in una situazione dalla quale non sapeva come uscire – racconta la Satta – non conosceva i suoi diritti e non poteva confrontarsi con nessuno. Aveva paura del divorzio islamico, in sostanza il ripudio della moglie da parte del marito che avrebbe gettato la ripudiata nel discredito e nel disonore più totale».
Infine il ruolo del marito che nell’ultimo periodo si era riavvicinato ad una interpretazione piuttosto radicale dei principi islamici: «E’ emerso che la famiglia seguiva le prediche di un imam della zona – spiega l’avvocato – certamente lui è apparso succube dei genitori, ultratradizionalisti, a differenza del fratello che invece non vestiva con abiti della tradizione e non si era fatto crescere la barba come lui».
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