Stefano Binda, cronaca di un’innocenza annunciata

A poco più di una settimana dalla decisione della Cassazione parlano i difensori del 53enne di Brebbia condannato e poi assolto per l’omicidio di Lidia Macchi

Generica 2020

«Il risarcimento? Certo, ci vorrebbe, ma per noi avvocati che abbiamo patito così tanti anni e combattuto contro un “sistema“ nel quale crediamo e che alla fine ha permesso di far prevalere diritto e giustizia».

Chiaro che Patrizia Esposito e Sergio Martelli – difensori di Stefano Binda appena assolto in via definitiva dalla Cassazione nel processo che lo vedeva imputato come assassino di Lidia Macchi – parlano per assurdo: ora da tutelare c’è la condizione del loro assistito, ingiustamente privato della libertà per tre anni e mezzo di carcerazione cautelare.

«Si può fare una stima: 250 euro al giorno che lo Stato deve a Binda per la carcerazione. Il massimo consentito per legge ammonta a 530 mila euro, noi parliamo di una cifra stimata superiore ai 230 mila euro. Sarà un percorso difficile, molto difficile e per nulla scontato. Ma ci proveremo».

Il ragionamento che sta alla base di questa profonda amarezza, nonostante la conclusione “in positivo“ di un delitto senza colpevoli divenuto caso di portata nazionale, parte proprio dal processo e quindi dall’impianto accusatorio. Che, come ripetuto durante la discussione di primo e secondo grado, è risultato “un vestito fatto su misura”, ritagliato su Stefano Binda, il colpevole perfetto la cui innocenza i due difensori avevano annunciato sin dal principio.

Sergio Martelli lo spiega in maniera molto diretta: «Sono stati presi alcuni elementi legati all’imputato, cioè una persona con un passato di tossico, sbandato, dipinto come un “poeta maledetto“ che ha avuto la sfortuna di avere un’auto di colore bianco ed essere uno dei tanti, in Cl, che leggeva Pavese, autore malinconico scelto non a caso come esempio: l’uomo privo di fede che può crollare (e per certi versi vale anche per Pasolini, altro autore che è stato addirittura “psicanalizzato” dalle perizie su alcuni scritti scambiati per farina del sacco di Binda e invece prodotti del talento dell’intellettuale bolognese). È stata un’indagine unidirezionale nella quale è mancata l’umiltà di studiare il “mondo di Binda“ fatto di passioni e problemi quasi adolescenziali di un’epoca lontana dalla nostra. Elementi letti in maniera avulsa trent’anni dopo e che oggi sembrano chissà cosa. Invece non costituiscono neppure indizi».

La genesi di molti dei ragionamenti sull’incongruenza degli elementi a carico di Stefano Binda parte da un pranzo.

Un ritrovo fra vecchi amici avvenuto nel giugno 2015 a Brebbia prima che Binda venisse iscritto nel registro degli indagati, ma successivo alle prime confidenze della supertestimone Patrizia Bianchi alla squadra Mobile (è la donna, amica di gioventù di Binda che riconobbe nella grafia dell’amico similitudini con lo stampatello della lettera inviata alla famiglia il giorno del funerale della ragazza e secondo l’accusa scritta dall’assassino).

Da qui, secondo la difesa, da questo ritrovo casuale di ex appartenenti a CL partono i sospetti sulla colpevolezza di Binda, a quei tempi “reo“ di aver cominciato a muovere i fili per costruirsi la sua innocenza. E da qui si rinforzano le indagini che mettono a fuoco l’uomo, la sua personalità, il suo passato e i trascorsi che si tenta di far combaciare in giudizio, ma che la difesa è stata in grado di smontare, evidenziando quel “deserto probatorio“ sintetizzato dalle conclusioni della Corte d’Assise d’Appello di Milano ed espresso dalla stessa procura generale durante la requisitoria in Cassazione.

Ascoltare i difensori parlare, invitati dalla stampa, costituisce quel salto indietro nel cuore del processo di primo grado, nelle indagini, nei reperti andati persi (gli stivali, i vestiti della vittima, persino il sedile lato passeggero della Panda intriso del sangue di Lidia, persino – da quanto si apprende – la busta nella quale venne inserita la lettera chiave “in morte di un’amica” divenuta elemento decisivo per l’accusa e su cui vene estratto il Dna dalla saliva rivenuta nei lembi incollati) o distrutti (vedi i 13 vetrini polverizzati da Aspem nel 2000 per fare posto ai magazzini varesini dell’ufficio corpi di reato). E ancora nelle escussioni di testi e nella lettura di perizie in un processo in Assise a Varese cominciato il 12 aprile 2017 e finito un anno dopo con la condanna all’ergastolo ribaltata nel luglio 2019, e con decisione della Cassazione che ha confermato in via definitiva solo la scorsa settimana, il 27 gennaio 2021.

Questo per ciò che concerne le sorti processuali di Stefano Binda.

Rimane, nei discorsi dell’uomo della strada, nell’opinione pubblica, e fra gli “addetti ai lavori” il più grande degli interrogativi: chi è l’assassino? Dove e come cercarlo? Esistono elementi su cui ragionare e su cui i legali, che conoscono a menadito le carte processuali riflettono ad alta voce guardandosi bene dal volersi sostituire ai soggetti d’indagine.

C’è un frammento di targa che una testimone è riuscita a ricordarsi, una “Va88…“ proprio di quella macchina bianca di cui tanto si è parlato e sulla quale vi sarebbe stato l’assassino di Lidia: ai legali non risulta sino mai stati fatti approfondimenti su questo elemento.

Così come la strada degli accertamenti genetici ancora possibili sugli elementi in mano agli investigatori, riusciti ad estrarre frammenti di Dna mitocondriale dai capelli trovati a seguito della riesumazione dei resti nella zona pubica della vittima. Dna che viene ereditato in ogni individuo dalla madre biologica.

«Dna che non appartiene a Stefano Binda. Un elemento che a nostro avviso non è poi così “neutro“ come è stato valutato dai giudici di primo grado», concludono gli avvocati Sergio Martelli e Patrizia Esposito.

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Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it

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Pubblicato il 05 Febbraio 2021
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